Teatro
“Maria Stuarda”, un Angelo del destino per due Regine
Appese ad una piuma fuggita dalle ali di un angelo. O forse fatta cadere giù dal cielo, volutamente. A chi spetterà? Una partita a scacchi per due regine della storia inglese: Maria Stuarda ed Elisabetta I. E della scena: Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi. Sanguigne e passionali. Scelte in base al caso a vestire sera per sera l’uno o l’altro ruolo. Indifferentemente. A dar prova di virtù interpretativa nel modellare i diversi personaggi. Roba da far tremare i polsi. Si accende così una singolare competizione sulle tavole del palcoscenico, tra due attrici di talento. A chi toccherà stasera la sorte di finire nel patibolo? E quella di decidere la vita della sorellastra rivale? Tutto ciò è anche un gioco perfidamente teatrale inventato dal regista Davide Livermore per la monumentale “Maria Stuarda” di Friedrich Schiller – uno dei più grandi drammi dell’Ottocento – andata in scena giorni fa in prima nazionale al Teatro “Ivo Chiesa” di Genova, dove si è replicata sino al 30 ottobre. Strano caso quello del preambolo inventato da Livermore. Lo stesso regista racconta come trovare una piuma a Genova sia considerato un segno di sfortuna. Il carattere genovese, un po’ aspro e spigoloso, ama le sfide e non lascia spazi ad altre leggende. Rinvenire una piuma altrove è infatti, al contrario, un segno positivo. Recuperata in luoghi insoliti indicherebbe addirittura che il mondo spirituale vorrebbe comunicare con noi. Messaggi affidati agli angeli per dare risposte alle nostre domande interiori. A pensarci bene questo doppio significato della piuma appare già di per sé un elemento squisitamente schilleriano indicante una evidente bivalenza della realtà e le sue mimesis.
Sia vero o falso Livermore affida in scena_ questo sì _ a un angelo con le ali la decisione di far interpretare un personaggio facendo cadere dall’alto una sua piuma. La direzione in cui planerà deciderà a chi spetta. Il dramma delle due regine inizia così in modo giocoso, mettendo in campo l’azzardo e il rischio di risvegliare l’interesse per una scena riportata alle fonti stesse di quello che fu il teatro musicale a Venezia nel Seicento, uno dei fil rouge sotterranei di questo allestimento, premessa alla commedia italiana e al grande melodramma. Un teatro frequentato dal pubblico di ogni classe e ceto che amava essere sorpreso e conquistato dalle storie ma soprattutto dalle invenzioni scenotecniche. Lo stesso che, esportato nelle corti di mezza Europa, fece conoscere al mondo di allora teatranti e scrittori, avventurieri di cappa e spada e cuori infranti, in arrivo dalla Laguna. Macchine spettacolari per raccontare in questo caso il potere nelle sue declinazioni più crudeli e le fosche trame della politica. Odio e amore in fronti contrapposti dentro le più avvincenti partite dello scacchiere del potere nell’Inghilterra del Seicento. Da una parte la sensuale e carnale Maria Stuarda che la sera della prima è Laura Marinoni: rubacuori e amante appassionata, papista, accusata di assassinare i mariti. Dall’altra è Elisabetta I d’Inghilterra, figlia di Enrico VIII. The Queen per eccellenza, interpretata con vis austera da Elisabetta Pozzi. L’incontro-scontro tra loro due è così forte e a bout de souffle che diventa difficile immaginarlo a parti rovesciate. Entrambe assolvono con religiosa presenza e straordinaria puntualità il ruolo assegnatole dal caso. Anche visivamente le rivali, avvolte nelle mise di Dolce e Gabbana, trasmettono l’aura regale di un dramma unico.
Scintillante per le paillettes su velluto nero Elisabetta, in lungo e passionale abito rosso e nero una sensuale e giunonica Maria Stuarda. Ad accompagnare, sostenere, mettere in rilievo ogni piccola sfumatura e momento è, come nel migliore dei melodrammi, la musica. In questo caso compagna preziosa di un allestimento pop ad alto tasso di glamour. E’ un mix audace di elettronica e suoni dal vivo, un rock chitarristico calzato alla perfezione a bordo scena da una straordinaria Giua, già cantante d’autore, un angelo dai capelli lunghi e infuocati, abbigliata con abiti di foggia militare, giacca nera e alamari dorati, uniforme indossata anche dai Beatles nella Banda dei cuori solitari, “Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (citazione pop dovuta). La sua musica è una sferzata di energia, un commento melodico dalle tinte dark che cala come una sciabola nei momenti più acuti dello scontro tra le due regine. In collaborazione con il compositore Mario Conte, Giua, ha riscritto madrigali di Dowland e Purcell immergendoli in un liquido sonoro ad alto voltaggio che accompagna e punteggia i dialoghi degli attori: un canto soul di solido impatto. Emotivamente elettrico tra chitarre, distorsori e una voce sempre divisa tra carezza e graffio dentro atmosfere di nero bluesrock e compatto “wall of sound”, muro del suono. In più, una presenza intrigante fatta di bellezza diabolicamente seducente, quasi contraltare dell’altro Angelo dell’inizio, o del Destino. A segnare ulteriori dicotomie.
Tutto accade all’interno di un impianto scenico essenziale, costruito da un ponteggio chiuso nei due lati da due speculari e ripide scale, opera dello scenografo Lorenzo Russo Rainaldi. Fondale perennemente tinto di rosso acceso ad esaltare la struttura spartana e di geometrica precisione dove qualcuno ha letto un omaggio all’arte del designer torinese Carlo Mollino. Prigione e corte, ma pure luogo di incontri fugaci e di congiure, avvolge e fissa la linea del fronte nello scontro tra le due donne.
E’ proprio qui che il dramma prende le mosse con la visita a sorpresa del guardiano, il cavaliere Paulet, che nel luogo di detenzione della regina scozzese compie una perquisizione finalizzata a trovare le prove di una congiura contro Elisabetta, suscitando le ire della nutrice di Maria (quando nel 1800 “Maria Stuarda” venne pubblicata in tanti lessero in controluce la figura di un’altra regina finita al patibolo: Maria Antonietta, giustiziata durante la Rivoluzione Francese nella pubblica piazza a Parigi, solo sette anni prima…).
La sfida è sul potere. In gioco la corona d’Inghilterra che i legittimisti vorrebbero sul capo della regina di Scozia Maria Stuarda ma Elisabetta, figlia di Anna Bolena ed Enrico VIII tiene in scacco la cugina e guarda per se il primato.
E’ una lotta senza esclusioni di colpi nel corso della quale ognuna dovrebbe essere chiamata a cedere e rinunciare a qualcosa. Un interessante laboratorio che prefigura in anticipo ciò che diventerà più evidente nei secoli futuri. Cioè l’assorbimento progressivo dei canoni maschilisti del potere da parte di una regina – nel caso specifico Elisabetta I– che non riuscendo ad elaborare una originale via al comando, mutua pratiche e metodi del patriarcato: donna che rinuncia alla propria femminilità, in perenne dissidio con sè stessa, incapace di tenere una linea dritta, costantemente preda di indecisioni. Maria Stuarda è l’esatto contrario. La condanna a morte (che Elisabetta firma, spinta dalla Ragion di Stato, ma di cui è incapace di assumerne fino in fondo la responsabilità, delegando ad altri il compito) la trasforma in eroina. Se pur ha commesso in passato qualche malefatta (l’ipotetico omicidio del marito) il sacrificio lava tutte le colpe tornando ad essere, in quanto nipote di Enrico VIII, “vera regina”. Elisabetta invece no: non aveva un diritto così trasparente ma possedeva un misto acido di codardia e infido e machiavellico amore per il potere tout court (Schiller conosceva molto bene “Il Principe” dello scrittore toscano).
Le due donne erano cioè distanti come il giorno dalla notte. Chi cadeva innamorato di Maria era conquistato dalla bellezza e il suo charme. Per lei era pronto a morire, Mortimer, nipote del Cavaliere Paulet guardiano della regina di Scozia, doppiogiochista che si fa latore presso il conte di Leicester, favorito di Elisabetta, di una lettera in cui Maria Stuarda implora il suo aiuto in virtù di una passione nascosta. Allo stesso tempo però tesse una trama di legittimisti pronti a liberare con una prova di forza la prigioniera. Finirà male. Il complotto sarà scoperto e Mortimer si suiciderà.
Ma come stare insensibile davanti alla interpretazione di Pozzi/Elisabetta, regina perfetta, fiammeggiante d’ira e allo stesso tempo divorata dal dubbio atroce di dover mandare al patibolo la cugina rompendo così per la prima volta il tabù che vuole i re sacri e intoccabili? Lontane ma unite quasi a sfiorarsi. A sentire addosso l’una il fiato dell’altra. Fino ad esplodere nella centrale scena dell’incontro tra loro, architettato e reso possibile dal conte di Leicester. Elisabetta, altera sulla carrozza che l’ha condotta alla caccia alla volpe, supplice e tremante Maria, che implora la regina inglese di liberarla e lasciarla vivere. Ma nei corpi delle due straordinarie attrici si legge differenza e lontananza. Quasi marziale, “maschile” e autoritaria con una punta di soddisfatta cattiveria Elizabetta/Pozzi; ammantata da dignità e dolcezza tutta “femminile” Maria Stuarda/Marinoni al cospetto della Lady di ferro che l’ha tenuta rinchiusa per diciotto anni. Quest’ultima accusa la rivale insinuando di essere una donna di facili costumi, una “bellezza volgare”. La seconda reagisce con furia e rimette le distanze ricordando ad Elisabetta che è lei la giusta “sovrana”.
Livermore cuce le trame schilleriane con sapiente dosaggio di tempesta e assalto disegnando via via un vortice al centro del quale, nell’estremità del cono, germina il male che con una furia devastatrice tutto coinvolge, tutto spazza via. Aiutato in questo da un cast eccellente, di alto livello. Cinque attrici/ori per oltre una dozzina di ruoli. Donne in massima parte ad accentuare il simbolismo di una regia attenta al femminile, tra ragioni del trono e del cuore. Donne e attrici che assolvono in modo lineare il passaggio “en travesti”, disegnando caratteri anche estremi di chi vive spettatore e pedina alle soglie del dramma. Sono Gaia Aprea che interpreta la nutrice di Maria, un ufficiale e il conte di Shrewsbury. Olivia Manescalchi è invece il Cavaliere Paulet, custode di Maria, l’ambasciatore francese e il Segretario di Stato William Davison. Un plauso particolare va alla giovane Linda Gennari, perfetta nei panni del giovane Mortimer, eroe romantico aggiunto da Schiller, destinato a morire, ma anche paggio di Elisabetta e l‘Angelo del destino. Due sono i maschi: Giancarlo Judica Cordiglia nel ruolo del barone di Burleigh e quello di Melvil il maggiordono di Maria. Infine Sax Nicosia, un tormentato Robert Dudley conte di Leicester (tutti abbigliati da Anna Missaglia)
“Maria Stuarda” è dramma squisitamente politico. Pervaso interamente di un realismo che Schiller ha ricavato dalla sua puntuale attenzione della Storia e quella di studioso e conoscitore delle regole scritte e segrete del potere. Di conseguenza i suoi personaggi non sono eroi granitici ma uomini e donne assolutamente vicini anche al nostro tempo con le proprie contraddizioni psicologiche e di pensiero. Cercando di nascondere i loro veri intendimenti rivelano le loro debolezze.
In quest’opera c’è certamente poesia ma anche attenzione alle storie individuali. Le passioni e le paure. La regia di David Livermore è assai vicina in realtà _ al di là del glamour della mise en espace che l’avvicina alle nostre sensibilità contemporanee _ all’essenza poetica del dramma schilleriano. La sua restituzione al tempo del rock assume in modo consapevole la distanza da quegli eventi narrati mantenendo intatte le qualità evocative e teatrali di un’opera complessa. Che poi per il teatro è obiettivo ideale. Come anche lo stesso Friedrich Schiller ebbe a scrivere nel saggio “Die Schaubühne als eine moralische Anstalt betrachtet” consegnato dall’autore nel 1784 alla società Deutschen Gesellschaft in cui si domandava cosa potesse dare un buon teatro in modo permanente. Scriveva che: “più di ogni altra istituzione pubblica dello Stato, il teatro è una scuola di saggezza pratica, una guida per la vita dei cittadini, una chiave infallibile per gli accessi più segreti dell’anima umana. […] Il palcoscenico è il canale comune in cui la luce della saggezza fluisce dalla parte migliore, pensante del popolo e da lì si diffonde attraverso l’intero Stato in raggi più miti».
Sempre in bilico tra essere tragedia e rimanere essenzialmente dramma “Maria Stuarda” , sembra evocare i territori del “Trauerspiel” _ dramma barocco tedesco tra “gioco” e “lutto” _ genere nato in Slesia in cui si intrecciavano plot storici e politici con storie amorose studiato in modo approfondito in un celebre saggio da Walter Benjamin. Questione forse più adatta agli studiosi e agli addetti ai lavori… è forse utile però richiamare alcune notazioni dello stesso Benjamin che in “Trauerspiel und Tragödie” a questa forma teatrale dedicò uno studio particolareggiato. In particolare, riferendosi ai rapporti con la tragedia in quelle pagine osservò che “Anche se forse la tragedia è più e meno che una forma d’arte, è certo che in ogni caso è una forma chiusa. Il suo carattere temporale è esaurito e formato nella forma drammatica. Il “Trauerspiel” invece è intrinsecamente inconcluso, e del resto l’idea della sua soluzione non si trova più all’interno della sfera drammatica. […] Forse – come la tragedia sta a indicare il passaggio dal tempo storico al tempo drammatico – il Trauerspiel è situato nel punto in cui il tempo drammatico trapassa nel tempo della musica» . A questo territorio sembra in parte iscriversi “Maria Stuarda” nel suo essere un dramma non direttamente storico ma dove il lavoro registico di David Livermore interviene, da una parte rispettoso dell’opera, dall’altra introducendo elementi critici e lanciando in modo abile e raffinato riferimenti colti e precisi alla nostra contemporaneità. Un guanto di sfida lanciato tra l’essere e non essere, tra realtà e suo doppio. Affidato alla legge del caso. Come una piuma che cade dal cielo.
“Maria Stuarda” sarà in scena dall’11 gennaio al Teatro Sociale di Brescia; Il 17 gennaio al Teatro Nuovo di San Marino; dal 19 al 22 gennaio al Teatro Rossetti di Trieste; dal 24 gennaio al 5 febbraio al Teatro Carignano di Torino; dall’8 al 12 febbraio al Teatro Verdi di Padova; dal 14 al 15 Febbraio alla Sala Teatro Lac di Lugano; dal 17 al 19 febbraio al Teatro Fraschini di Pavia; dal 21 al 26 febbraio al Teatro Donizetti di Bergamo.
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