Teatro

Marcello Sambati, la poesia dell’attore immaginario

15 Marzo 2023

Cosa è un attore? Cosa un’attrice? Viene da chiedersi, sin dalle origini dell’umanità, quale sia lo statuto possibile di questa categoria umana, pensando più al “cosa” che non al “chi”.
Oggi si parla, e giustamente, di “lavoratrici e lavoratori dello spettacolo”, aprendo all’urgenza di una definizione socio-professionale di una delle categorie più bistrattate dal punto di vista occupazionale, previdenziale, professionale d’Italia.
Ma al di là del necessario approccio politico-economico, è sempre sfuggente la definizione poetica. C’è un appunto – riportato in copertina di un bellissimo libro – scritto da Claudio Meldolesi, storico del teatro, che dice: «l’attore è colui che combatte con la vita» (il libro è «Pensare l’attore», edito da Bulzoni qualche anno fa). Meldolesi ripercorre alcune tappe fondamentali per descrivere, direi indicare, la specificità, ovvero la “microsocietà” dell’attore e dell’attrice. Dai comici dell’arte, che si barcamenavano per sopravvivere nella Parigi del Seicento e del Settecento, fino all’analisi di un “tempo” diverso che connota l’essere dell’attore nella società: che sia il tempo dello spettacolo, o quello dell’allestimento ossia delle prove, o ancora quello – che provo a riassumere grossolanamente – della storia del teatro nel contesto umano. Muovendosi agilmente tra Shakespeare e Totò, Meldolesi, con la sua brillantissima prosa, aveva già indicato la direzione verso cui guardare per capire quella “differenza” che colloca gli attori e le attrici ai margini e, assieme, al centro della società umana.
È solo un esempio, certo indicativo: non mancano, si sa, gli studi, le analisi, i diari, gli scritti originali di attori e attrici che hanno svelato e rivelato – o forse ri-velato – contribuendo ad accrescere il fascino e il mistero di quegli esseri umani che brillano su un palcoscenico.
E mentre Kostantin Stanislavskij si dedicava al “lavoro dell’attore su se stesso”, dando metodo e sistematicità alla creatività attorale, il teorico folle Antonin Artaud proclamava che l’attore è “il suppliziato che fa cenni dal patibolo” (cito a memoria, abbiate pazienza) per quella che è ancora, almeno a mio parere, la più bella definizione della professione.
Su queste due grandi linee, potremmo dire generalizzando, si sono mossi gli studi e le prassi del Novecento teatrale, tra mille prospettive e domande, trovando un culmine da un lato nel folgorante mattatorato di Vittorio Gassmann e, dall’altro, nella “macchina attorale” con cui si (auto)definiva Carmelo Bene fino alla inquietante affermazione di Romeo Castellucci che titolava un suo lavoro “Attore, il tuo nome non è esatto”.

A rilanciare la discussione, ma stavolta radicalmente dal di dentro, arriva un bel libro pubblicato da Marcello Sambati per la piccola ma vivacissima casa editrice pugliese Kurumuny Edizioni: “Atlante dell’attore immaginario”.

 

Marcello Sambati

Conosco Sambati sin dagli anni Novanta: lui, attore, autore e regista, è da sempre un cardine della scena di ricerca romana e non solo. Animava – la parola non è casuale, dal momento che “dava l’anima” – il piccolo e vivacissimo spazio del teatro “Furio Camillo”, ma tesseva costanti legami con altre forti individualità di quegli anni, a partire da Leo de Berardinis, così come si esponeva come “maestro” (ma guai a dirglielo!) favorendo la crescita di giovani artisti e artiste. Ricordo bene un caffè preso assieme a piazza Esedra, dove arrivò in sella a una magnifica moto Guzzi d’antan: Marcello Sambati mi disse che non voleva essere una “presenza” nel teatro italiano, semmai una “assenza”. E questo ossimoro, dichiarato allora con un sorriso, pare far da guida alla scrittura poetica che cresce – in una vorticosa spirale – anche in questo “Atlante”.
Il libro è un canto, un poema suddiviso in dieci capitoli, o meglio dire canti. A me, leggendo, evocava il più volte citato in epigrafe Paul Celan, ma pure – per la millimetrica precisione di sguardo – certi “Canti” di Peter Handke, o le domande sistematiche di Edmond Jabès (cui pure Sambati si è dedicato) o ancora l’ariosa composizione dei Quattro Quartetti di Eliot. Ma sono suggestioni mie, non è detto che Sambati le riconosca. Comunque sia, nel lasciarsi andare alla lettura, il poema avviluppa e colpisce, in una scrittura lirica ma non autoreferenziale, anzi piana, comprensibile, evocativa nella sua umbratilità.
«Solo, in cammino/Furtivo, incerto e sensibile/si muove intorno al senso e allo scopo/del proprio cammino». Questo l’incipit, che potrebbe rimandare a quel «Solo et pensoso, i più deserti campi, vo’ mesurando..»: ma Petrarca è lontano, lontanissimo, dallo stato febbrile, dallo scavo interiore, notturno, implacabile di questo “attore immaginario”, perché qui di teatro si parla. L’analisi si fa feroce, passo dopo passo: «L’improvviso di un silenzio/o di una voce, in un luogo senza confini:/il nero del teatro, campo di passione,/adito d’oscurità che adombra premonizioni e destini». Non ci sono sconti, né edulcorate o magiche definizioni. «Dire le forme del dolore,/è la ragione della poesia/che scava nel profondo dell’essere/il ventre aperto di ogni presenza». Eccolo, l’attore, paragonato all’opera di un vasaio, che costruisce il vuoto del vaso: «Quel che il vaso potrà contenere avrà lo stesso volume del suo vuoto».
E ancora: «Portatore di un volto di cui non sa nulla/immobilizzato in una fissità disarmata,/un essere-niente appartato in qualche segreto dolore/si accende e s’infiamma di passione,/senza fiato respira». Appare così il souffle caro al citato Artaud, quel respiro che è scintilla vitale, segno evanescente di potenza e presenza del corpo. “Niente altro che il corpo”, continua Sambati, un corpo che «entra in scena per raccontare mondi finiti/ormai inesistenti./Salta, recita, si trafigge, si punisce, si ricostruisce, lotta, vince e perde». E chiosa: «il suo corpo di marionetta è irriducibile al dolore». La parola dolore appare spesso, ma non fa paura. È anzi essenza, senso, differenza del corpo complesso dell’attore immaginario, capace di guardare «con attenzione quel qualcosa che non c’è». Nel susseguirsi delle dieci “stazioni”, l’analisi di Sambati affonda sempre un po’ di più, scandaglia come un sismografo le tensioni dell’attore che è presenza-assenza, che è corpo danzante – torna per me l’omaggio ad Artaud, con quel “danzare alla rovescia” che doveva essere l’obiettivo del corpo attorale. «Danzare come pregare», scrive ancora Sambati. Ma il confronto profondo è con la parola, con l’arte evanescente della parola: «una parola dopo l’altra, come punti/di cucitura sulla pelle, di un dialogo/che riscalda e illumina». Aggiunge più avanti: «Schiudendosi, le labbra lasciano cadere/ le parole. Alcune fecondano, germogliano/e fioriscono. Le riconosci dal silenzio/che le circonda, dal vuoto che creano./La parola ha un calibro, un peso. Quel che/si dice, come si dice e quel che non si dice./La parola non nata. Quella in esilio, caduta,/ferita, ammutolita. Muta o balbettante,/la parola è una figura della voce, il corpo/di una visione: la parola dell’ascolto/il suo soffio, la sua verticalità, le sue ali».

Sambati in scena

È un omaggio sincero eppure problematico, quello che Sambati offre al mito e all’essenza della parola, intesa nella sua carnalità e nella sua incomprensibilità. Eppure la parola è vera, viva – “parole che figliano parole” diceva Buttitta. Poi, quando passa a scrivere delle “Nature”, nel sesto capitolo-canto, Sambati sembra accogliere la minuziosa capacità descrittiva di Handke, del suo “Canto alla durata” ad esempio, e la pagina si apre a un respiro poetico consapevole. «A chi sa attendere qualcosa viene. Natura/è luogo di fili invisibili. C’è mondo, c’è lotta,/tra cardi spinosi, formiche, mosche carnarie,/su rovi, muri crepati, pietraie, in giorni/senza fine e attese senza tempo». Ecco una possibile definizione, o quanto meno dubbio, domanda che mi piace lanciare: Attore è arte dell’attesa?
Certo è solitudine: secondo Sambati è colui «che ha solo un tempo. Il tempo dell’apparizione:/un bagliore nel buio (…) Alla luce di un vecchio lume/questo corpo, miniatura di intrecci e gesti perduti/sta, silenzioso, in attesa. Un vento lo piega,/un richiamo lo anima, un raggio lo acceca,/una parola lo esalta, un grido lo allarma,/una musica lo colma.». E sta: «solo come una lacrima».
Si dipana ancora, pagina dopo pagina, la scrittura sapiente di Marcello Sambati, alla ricerca instancabile di una definizione, di un modo, di un mondo possibile. È la sua esperienza, è la sua storia, la sua vita, ma è anche l’Altro da sé, di nuovo quell’eterna alterità che sono l’attore e l’attrice in scena, così simili e diversi dall’essere umano. Sempre pronti a cogliere un attimo indicibile – loro in palcoscenico, noi in platea – un fugace momento, «ciò che è stato, che sarà, che tornerà/ancora, che non tornerà più…».
Nella incisiva prefazione, lo storico del teatro Raimondo Guarino scrive: «Il teatro dell’attore immaginario è un teatro scritto e vivo, che invita a leggere e vedere oltre la scena. L’attore immaginario, guardando la scena a rovescio, compone i corpi e le voci delle vite apparse». Questo è il teatro: un istante eterno che, con la delicatezza di un «palpito», è già passato.

Atlante dell’attore immaginario, di Marcello Sambati
Kurumuny Editore, pgg 177, euro15
Per info: www.kurumuny.it

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