Teatro

L’opera da tre soldi, la coscienza di come non funziona il mondo

13 Ottobre 2022

“Svaligiare una banca è delitto assai meno grave che fondare una banca”, scrive Brecht, citato da Ladislao Mittner nella sua monumentale e imprescindibile Storia della letteratura tedesca (Einaudi). Sembra un paradosso pour épater le bourgeois. E invece è una sacrosanta verità spiattellata come l’apologo di Menenio Agrippa nel Coriolano di Shakespeare. Su questi paradossi, o piuttosto rovesciamenti speculari dei meccanismi sociali si regge infatti la struttura ideologica del suo teatro. Che vorrebbe essere antiaristotelico, come spiega bene Mittner, ma di fatti Brecht è forse, dopo Euripide, chi ha meglio compreso che cosa sia la catarsi tragica: un salto dall’inconsapevole al consapevole, il momento in cui si prende coscienza che ciò che accade sulla scena, più che la rappresentazione di un dramma particolare, per quanto mitico o paradigmatico o favolistico o infine realistico possa essere, è la spiegazione di quanto accade a te stesso. A chi gli diceva che il suo teatro riesce a molti incomprensibile, Brecht rispondeva che se qualcuno va a teatro per vedere qualcosa di comprensibile, è meglio che per vedere qualcosa di comprensibile si chiuda nel bagno. Qualcosa di simile a ciò che si canta nell’Opera da tre soldi: “Il vostro animo nobile / non serve che a mentirvi”. Perché “soltanto chi sta bene vive bene”. Ecco allora che riscrivendo due secoli dopo, e rovesciando come un guanto The Beggar’s Opera, ballad opera di John Gay con musiche di Johann Christoph Pepusch, andata in scena al Lincoln’s Inn Fields di Londra il 29 gennaio 1728, Brecht porta sulla scena il “rapinatore di banche” come specchio esatto del “fondatore di una banca”. Più precisamente, rappresenta la malavita londinese come società speculare della società dei possidenti. Chi sta male non si comporta insomma male solo per sbarcare il lunario, ma anche, o soprattutto, per farne un affare, e riprodurre, anche tra i pezzenti, il meccanismo di rapina e sfruttamento che le classi dominanti attuano quotidianamente sulle classi dominate. L’uomo è “malvagio”, ed è la malvagità, la violenza della malvagità, il motore della storia. Brecht declina questa malvagità in tutti i suoi casi, ce la presenta in tutti i suoi aspetti. Compreso quello della “schiavitù sessuale”. La fedeltà promessa a parole è nei fatti compromessa e tradita ad ogni istante. Tra uomini e donne, tra donne e tra uomini. Come ci si comporta nel sesso ci si comporta anche nelle altre relazioni sociali. L’apologo brechtiano non un solo livello di lettura, ma molti. È questo che può disorientare il pubblico, nonostante la franchezza, la denuncia sociale esplicita di molte affermazioni. In altre parole Brecht non permette di simpatizzare per questo o per quell’altro personaggio, di provare compassione per le situazioni evidentemente tristi, perché ogni personaggio, ogni situazione ha molte facce, e quasi tutte negative, quasi tutte di egoismo, di mancanza di pietà, ma anche di coraggio, di assenza totale di riferimenti morali. Su questa sofferenza di vivere in una società dove ciascuno vuole il male dell’altro, Brecht scriverà dieci anni dopo l’Opera da tre soldi, uno dei suoi drammi più belli, più disperati: L’anima buona di Sezuan. E tutta una serie di poesie – Brecht è uno dei più grandi poeti del Novecento – sulla sofferenza che suscita la cecità degli uomini per le ingiustizie che gli uomini commettono. “In sogno ho veduto stanotte mani segnarmi a dito / come un lebbroso. Erano guaste dal lavoro e / spezzate. // Non sapete! gridavo, con un senso / in me, di colpa” (Brutto risveglio, traduzione di Franco Fortini). E che cosa, dunque, vede, chi si siede su un poltrona a teatro, e sulla scena si rappresenta l’Opera da tre soldi?

Lo spettacolo che il Festival Romaeuropa ha portato al Teatro Argentina di Roma, viene da Berlino, la città di Brecht, che però era nato ad Augusta, e viene dal suo teatro, il Berliner Ensemble. Che fu, dopo Brecht, diretto da Heiner Müller, l’autore della Hamletmachine, un testo chiave del teatro postmoderno, in realtà una integrale rimodulazione dei paradigmi teatrali, che con ciò che poi venne inteso come postmoderno non ha niente a che vedere. Di fatto Müller prosegue e approfondisce la ricerca delle avanguardie teatrali del Novecento, assorbendo e insieme superando in una nuova impostazione drammaturgica le lezioni apparentemente opposte di Brecht e di Artaud. Barrie Kosky, il regista dello spettacolo berlinese prosegue su questa via. I romani ricorderanno un suo fiabesco Flauto magico al Teatro dell’Opera, con le nuvolette dei fumetti, ma i personaggi inseriti in un clima da cinema, soprattutto tedesco, degli anni ’20 del secolo scorso. Si pensa a Murnau, a Lang. E un filo sembra unire quel Mozart a questo Brecht. La Regina della Notte era un ragno malefico, la testa un orrido teschio da film di fantascienza: il mostro malvagio che uccide gli innocenti. E una testa femminile compare subito all’inizio, dopo la breve ouverture, nell’Opera da tre soldi, sbucando da un sipario di fili argentei cosparsa di paillettes, “Quanti denti ha il pescecane”, il motivo, immagino, nelle orecchie di una parte del pubblico, almeno quello che ricorda Strehler e Milva. Ma ritorniamo all’ouverture. È fin dall’attacco che si capisce dove andrà lo spettacolo, quale sarà il percorso teatrale della rappresentazione. Adam Benzwi al pianoforte e all’armonium dirige il gruppo dei sette musicisti che suonano James Scannell il sassofono contralto, il clarinetto, il flauto, l’ottavino; Doris Decker i sassofoni soprano, tenore, e baritono; Vit Polák la tromba; Otwin Zipp il trombone e il contrabbasso; Stephan Genze alle percussioni; Ralf Templin la chitarra e il banjo: uno più bravo dell’altro. Si versati fiumi d’inchiostro sull’assunzione della musica di consumo come manifesto antimelodrammatico da parte di Kurt Weill, ma senza cogliere il senso dell’uso che Weill fa della musica che si ascoltava nei cabaret berlinesi. L’attacco sfodera subito un contrappunto complicato che sembra uscito da una delle pagine più intricate dell’Arte della fuga di Bach. E il contrappunto – di motivi, di timbri, di ritmi – sarà il filo di tutta la musica dell’Opera. Ciò significa una cosa sola: per quanto attraenti, per quanto orecchiabili, le musiche di Weill non sono canzonette, non sono musica di consumo, ma una rielaborazione colta, stracolta, dei suoi modelli. Il che la trasferisce subito su un altro piano. Questa musica si fa manifesto antimelodrammatico non perché orecchiabile come una canzonetta – perfino Wagner scrive melodie orecchiabili, che so, la marcia nuziale del Lohengrin, diventata la marcia di molti matrimoni borghesi, la cavalcata delle Valchirie, parodiata perfino dai cartoni animati – ma perché innalza a musica colta, consapevole, la musica d’intrattenimento, elaborandola con quei procedimenti colti, primo tra tutti il contrappunto, che la musica d’intrattenimento o ignora o adotta in maniera semplice e in parte inconsapevole o con minore perizia. È lo stesso procedimento che Brecht applica alla scrittura drammaturgica. Piega il dramma d’azione a significare altro. Rappresenta la vita degli scarti della società per rappresentare i comportamenti delle classi che dominano la società. Insomma è come un procedimento fotografico: mostrare il negativo della società il cui positivo sta nella coscienza del pubblico. Riconoscere la somiglianza, l’effettiva corrispondenza, provoca nello spettatore quella catarsi di cui scrive Aristotele: ora sa come funziona la vita, la società in cui vive, la storia. Il che non lo farà stare meglio. Ma, almeno, gli toglierà l’illusione che basti una coscienza pulita a ritenersi estraneo al la ferocia dei meccanismi sociali. In questo Brecht condivide il disprezzo di Hegel per le anime belle, piene di ideali, ma che nei fatti non fanno niente per modificare i meccanismi sociali, per impedire le ingiustizie. Il clima da cabaret che Kosky riesce a realizzare sulla scena, come se la rappresentazione sia appunto solo una rappresentazione, una favola, realizza in maniera perfetta l’idea di teatro estraniato che intende Brecht, un teatro che invece di commuovere, emozionare, faccia pensare. Ma senza trascurare affatto il piacere dell’intrattenimento, della piacevolezza delle canzoni. Anzi, il pensiero critico dello spettatore è suscitato proprio dall’abilità dell’intrattenimento, dalla perfezione dell’esecuzione musicale.

Gli attori, uno più bravo dell’altro, sono straordinariamente efficaci nel raffigurare la pirotecnia dello spettacolo, nell’effettuare le acrobazie necessarie a muoversi nell’intelaiatura geometrica, sopra e sotto, dell’impalcatura mobile che ingombra la scena, stupendi nel rimpallarsi le battute, provocare i silenzi, tutto artificioso, mai realistico, con i loro costumi (di Dinah Ehm) da varietà. Tra tutti vanno menzionati almeno la affascinante Constanze Becker nel ruolo di Celia Peachum, e Cynthia Micas in quello di sua figlia Polly. Impagabile Tilo Nest nella parte di Jonathan Peachum. Kathrin Wehlisch è il carceriere Brown. Indimenticabile quando trascina il servizio dell’ultima cena del condannato, il carrello del pasto, l’asparago infilato nella bocca. Ma sopra tutti c’è la pirotecnica trasformazione che di scena in scena, fino a quella dell’impiccagione, compie Nico Holonics che interpreta Mackie Messer. Le infinite modulazioni della voce, l’abilità acrobatica dei salti tra le impalcature, l’eleganza dei gesti danzanti, ne fa quasi un trattato di recitazione. E a proposito: tutti esibiscono una dizione chiarissima, fanno intendere ogni sillaba di ciò che dicono, per chi conosca il tedesco è un godimento in più. I sopratitoli aiutano chi ignora la lingua. Ma forse nemmeno a loro sarà sfuggita la varietà con cui sono pronunciate le frasi del dialogo. Che dire di più? È di moda in Italia storcere il naso alle messe in scena tedesche. Atteggiamento sbagliato. Sarebbe più opportuno chiedersi che cosa ci voglia significare il teatro tedesco con questa sua inesauribile fantasmagoria d’invenzioni teatrali. E non si dimentichi, inoltre, che il teatro moderno nasce proprio in Germania, e per opera di due immensi drammaturghi: Lessing e Goethe. Siamo alle soglie della Rivoluzione Francese. I tedeschi l’anticipano in teatro. Il teatro francese ne trarrà le conseguenze. Il resto di Europa seguirà le tracce. Verdi ripensa la propria drammaturgia dopo il soggiorno parigino. Pirandello non avrebbe scritto un rigo di ciò che ha scritto senza gli anni trascorsi a Berlino. Ma questi sono solo cenni. L’argomento meriterebbe una più ampia discussione. Teatro esaurito, e trionfo per tutti. Com’è giusto.

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