Teatro
Kilowatt San Sepolcro: il piacere del Festival
E sì, valeva davvero la pena andare a San Sepolcro per il Kilowatt Festival. Non solo per rendere dovuto omaggio a Piero della Francesca, che in questo bellissimo borgo toscano nacque, visse e diede spazio al suo genio, ma anche perché la bella manifestazione diretta da Luca Ricci e Lucia Franchi ha ricorfermato che il teatro italiano sta superando – nonostante mille difficoltà – i cupi mesi del lockdown. Va ricordato e ribadito che non tutti i teatri italiani sono messi nella condizione di riaprire, non tutti gli artisti sono stati richiamati “in servizio”: i problemi sono ampi e complessi, attengono lo stesso statuto dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo dal vivo. Ma credo sia importante che vengano anche questi segnali di vita, che il teatro torni a incontrare il proprio pubblico, che, insomma, la ricerca continui.
E a San Sepolcro, complice un ottimo staff, hanno fatto bene le cose, così, senza mai demordere, sono arrivati al Festival con entusiasmo: spazi reinventati, controlli sistematici non hanno impedito, a spettatori e artisti, di vivere appieno il teatro.
Al Kilowatt allora, abbiamo visto cose belle, altre invece ancora da sistemare, da assestare, frutto magari di tempi di gestazione confusi, prima rallentati poi accelerati. Nelle poche giornate che mi sono toccate in sorte, in apertura festival, c’è stato innanzi tutto un cordiale, condiviso, appassionante omaggio a Roberto Latini e a Fortebraccio Teatro. Lui, padrino di questa edizione, non si è sottratto: un convegno, letture, spettacolo hanno riconfermato – laddove che ne fosse bisogno – l’alto livello della compagnia (ne scrivevo qui).
Emozioni di spettatore, insomma, nel ritrovarsi in un contesto vivo, dinamico, pieno di proposte, che con ritmi forsennati mettevano in fila uno spettacolo via l’altro.
Allora, tra le tante proposte voglio provare a enuclearne alcune.
La prima giornata è andata nel segno del teatro scabro di una compagnia orgogliosamente ostinata: quotidiana.com. Il duo riminese, Roberto Scappin e Paola Vannoni, da anni ci invitano alle loro sulfuree riflessioni, ai loro dialoghi sempre in sottrazione e in astrazione, viscerali e aerei allo stesso tempo. Entrano quasi riluttanti in scena, sottilmente si fanno spazio, a forza di elucubrazioni e esausti battibecchi, si impossessano di un ritmo blando che tengono fino allo sfinimento. Dilagano poi nella loro intelligente dialettica, senza risparmiare nessuno, primi fra tutti loro stessi. A San Sepolcro hanno presentato Tabù, faccio colazione con il latte alle ginocchia, requisitoria su tutti i nondetti, i nascosti, le vergogne indotte e subite di questa nostra bigotta società. Non pretendono verità, i due: semplicemente dicono e si dicono, esterrefatti eppure partecipi delle nostre meschinità. Il dialogo avanza quasi per ineluttabilità, per rassegnata ironia: il fallimento di tutti e ciascuno, l’impossibilità di essere normali, tutto passa nel filosofico tritacarne (è il caso di dirlo) di quotidiana.com. Da anni il gruppo sembra fare lo stesso spettacolo, fedeli alla linea della loro cocciuta originalità: cambiano i termini del discorso, cambiano le incrinature del patinato mondo in cui affondano le mani, ma resta l’aspra denuncia della banalità del vivere. Se ne esce esasperati e stupiti da questo Tabù, pensando a quanto e come ci voglia coraggio per non affondare nelle nostre esistenze.
Un altro lavoro di cui voglio parlare è Eracle, l’invisibile, del Teatro dei Borgia, con drammaturgia di Fabrizio Sinisi e regia di Gianpiero Borgia. Seguo il gruppo da anni, sin dai primi lavori maturati dopo gli studi al GITIS di Mosca. Recentemente la compagnia ha messo a segno una formidabile Medea per strada, con la straordinaria interpretazione Elena Cotugno. E proprio sulla scia di quel lavoro, continua la rilettura-riscrittura dei miti classici. Stavolta è il turno di Eracle, affidato a un solidissimo Christian di Domenico: solido però, non certo come il leggendario Ercole, ma anzi nelle sue fragilità, nella sua discesa agli inferi, nel suo dover “faticare” per tirare avanti. È la storia di un crollo economico, della sistematica perdita di tutto: lui un piccolo borghese “arrivato”, si presenta a suon di citazioni, sfoggio di cultura. È un bravo professore, in carriera, si dà da fare anche per qualche cento euro in più, per pagare mutuo e quel benessere ormai “necessario”. Poi una accusa di molestie a scuola, addirittura di pedofilia. È vera? È falsa? Su questo la drammaturgia di Sinisi lascia margini di ambiguità e irrisolutezza (e forse qualcosa è da risolvere) ma il racconto dell’uomo diventa davvero la cronaca di una sconfitta inesorabile. Il mutuo, la separazione, il dolore di non poter vedere la figlia, gli escamotage per risparmiare: è il declino di un essere umano, poi non così inverosimile, fino alla tragedia finale. Si toglie le magliette con stampati su i logo dei supereroi Marvel: perché l’eroe, qua, è chi sopravvive. Il lavoro funziona per la capacità del protagonista di creare un “accadimento”, una condivisione emotiva ed empatica forte. Proprio com’era stato per la Medea, agita su un furgoncino, qui lo spazio scenico ha una sua concretezza, i gesti hanno un segno narrativo preciso, e tutto lo spettacolo mira (con successo) al progressivo coinvolgimento emotivo di ogni singolo spettatore. Insomma, per quanto il lavoro sia un po’ da rodare, la “mazzata”, la commozione, arriva inesorabile.
Degli altri lavori visti, mi piace segnalare l’interessante coreografia di Stefania Tansini, anche ottima interprete con Miriam Cinieri: con Punti di ristoro dà prova di una cifra compositiva intrigante e potente. E se pure un po’ troppo ammiccante e smorfiosetto, il T.I.N.A. della sempre bravissima Giselda Ranieri regala una coreografia brillante, arguta, capace di mescolare i piani narrativi, corpo e voce, critica sociale e derive individuali, banalità quotidiane e tensioni senza via d’uscita.
Resta da dire di altri lavori visti: in generale, mi sembra che ci sia un robusto bisogno di approfondimenti drammaturgici e di regie più accurate.
Paolo Mazzarelli, che seguiamo e stimiamo sin dal suo debutto, dà conferma delle sue ammirevoli doti interpretative e compositive narrando la storia di un famoso attore in crisi psicoanalitica alle prese con Macbeth. Soffiavano, una navigazione solitaria con rotta su Macbeth (s-concerto per voce e suono), questo il titolo, è un gioco divertente, ha ritmo, bellissimi momenti, anche commoventi, ma, per restare in tema e per suggestioni simili, le inquietudini di Thomas Bernhard e del suo Minetti sono ancora lontane.
Da sistemare – e lui lo sa – il lavoro che Andrea Cosentino ha fatto con il raffinato e sornione pianista Fabrizio De Rossi Re: come sempre intelligente, tagliente, spiazzante, Cosentino si inerpica in una strana e ampia riflessione astrofisica e filosofica sul tempo e lo spazio, per poi toccare il cuore nella tragedia di un lutto vissuto. Il lavoro si intitola Rimbambimenti: e l’impianto c’è, gli spunti anche: un po’ di lavoro serve però per dare sostanza alle intuizioni.
Mi sembra ancora molto, ma molto, da sistemare Baccanti di Leviedelfool: ancora troppo nel cono d’ombra estetico e poetico di Roberto Latini, il pur bravo Simone Perinelli si perde con affanno affastellando testi, situazioni, energie, citazioni. Tanta generosità ha portato, a mio parere, a una malgestita sovrabbondanza di segni e significati, fino alla saturazione percettiva.
Allora, ripartendo da San Sepolcro, con in borsa il miele della Aboca – la ditta super-bio sponsor del festival – resta il pensiero, piacevole, che forse oggi più che mai i festival abbiano la possibilità di ritrovare un ruolo importante: ricostruire il senso, laico e gioioso, della “festa”, della condivisione, del piacere di stare assieme. Non mi stanco di ripertermelo: qualcosa sempre più necessario al teatro come in piazza.
( Nella foto di copertina, di Elisa Nocentini, la Frantics Dance Company in apertura festival, danza in piazza Last Space)
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