Teatro
Il teatro fatto con i libri
Libri in quarantena. In questo periodo di grave emergenza e di forzate reclusioni, cui tutti naturalmente aderiamo, mi resta difficile stare senza teatro ma – come dire? – me ne faccio una ragione. Non riesco, forse per età, per pigrizia, o per forma mentis, a entusiasmarmi troppo per le innumerevoli iniziative in streaming, o “da remoto” come dicono tutti. Le trovo, effettivamente, poco “smart”. Sarò reazionario, ma ho un’idea banale del teatro ancora come incontro di comunità, di persone in carne e ossa, sesso e sangue: allora queste riproduzioni video, ancorché live, mi lasciano il sapore di bei gesti, anche volenterosi, anche necessari per molti – magari più per chi li fa che per chi dovrebbe seguirli – ma insomma, di altra natura. Lo streaming, lo skype, il whatsapp video sono preziosissimi, utilissimi per conferenze, discussioni, confronti, anche per sottili e raffinati giochi erotici, ma il teatro ha bisogno di altro, è fatto di altro. Allora, nel frattempo che siamo tutti in casa, abbiamo il piacere dei libri.
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E dunque anche di libri teatrali. Corroboranti e nutrienti quanto se non più dello streaming.
Qualche tempo fa, Nando Taviani coniò la definizione: “Uomini di scena, uomini di libro”. A parte il fatto che oggi, quel titolo così maschile sarebbe improponibile, la bella riflessione di Taviani spingeva a considerare come certe “rivoluzioni sceniche” fossero anche quelle fatte sulla carta, dalla drammaturgia alle teorie che hanno segnato il Novecento. Come pure è interessante, e non mi stanco di ripeterlo, leggere la “civiltà teatrale” delle varie epoche che ci hanno preceduto non solo nei manuali, ma anche nei romanzi che svelano molto più di quel che raccontano. Basti pensare al Romanzo Teatrale di Bulgakov o all’Educazione teatrale di Roberto De Monticelli. Dunque, ci occupiamo di teatro su carta. E lo facciamo segnalando tre bellissimi ritratti di “uomini di scena”.
Il primo libro di cui vi voglio parlare è Anche a dispetto di Amleto – Cinquanta anni di teatro e altro (Aracne, 2019). Si tratta di un bellissimo volume di memorie scritto da Mauro Carbonoli. Molti lo conoscono, molti lo ricordano come vitalissimo direttore generale dell’Ente Teatrale Italiano – quando ancora l’Eti esisteva. Ma Carbonoli ha dalla sua una lunga e bellissima vita nel teatro: da “attor giovane” nelle primarie compagnie di giro, poi parte attiva del Piccolo di Milano, nel celebre Arlecchino di Giorgio Strehler, poi il cinema, la radio, le inattese avventure (come una temeraria trasferta a Berlino Est), e ancora le prime iniziative “private”, come Teatro-Insieme, la nascita della passione per l’organizzazione teatrale, gli incarichi sempre più attenti al quello che oggi si chiama management – nel costante confronto con un maestro come Paolo Grassi, e poi i ritratti umani di artisti, direttori di teatro, autori. Ecco Ruggero Ruggeri, Memo Benassi, Diana Torrieri, Cesco Baseggio, Renzo Ricci, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Gassman, Fantoni, Franco Enriquez e ancora tanti e tante, noti e meno noti, celebri e sconosciuti, fino a ieri, fino a oggi.
Un mondo, abitato da persone che hanno amato e amano il teatro. E i ricordi più belli sono proprio quelli dedicati ai “comprimari”, alle figure che stanno sullo sfondo o che agiscono dietro le quinte, quel mondo ribollente e oscuro che vive all’ombra dei riflettori.
Quella di Carbonoli, sempre affiancato dalla moglie, l’attrice Paola Piccinato, è insomma una “storia” intima e condivisa, del teatro italiano, raccontato con sapienza e con ironia. Ci si ritrovano aneddoti e vere e proprie rivelazioni. Tra politica e amministrazione, tra scena e gestione, Carbonoli, con incredibile capacità di ricordare ogni dettaglio, evoca le battaglie combattute a Genova o nel Veneto, in Emilia Romagna o a Siracusa o infine al Teatro di Roma, dove sembrava, sin dalla sua fondazione, una sfida degna di Sisifo tentare di limitare la lottizzazione, in nome della libertà e della qualità del teatro, a leggere le pagine di questo libro si possono ripercorrere alcune – se non tutte – le fasi saliente della nostra storia teatrale dal dopoguerra a oggi. E sono battaglie che Carbonoli ha saputo combattere con integrità e intelligenza, portando il suo contributo di instancabile organizzatore: confrontandosi con quelle “macchine da guerra” che hanno garantito, bene o male, che ogni sera si andasse in scena. Ecco allora Franz De Biase, Nina Vinchi, Vincenzo Torraca, Carmelo Rocca, e tanti altri organizzatori, amministratori, gestori di un teatro che si andava evolvendo, modificando, crescendo, strutturando. Mauro Carbonoli, ha dato il suo contributo: e in questo libro si toglie anche i proverbiali sassolini dalle scarpe ricordando – sempre con eleganza – certe situazioni poco edificanti in cui si è trovato. Un libro da leggere, con lo stesso affetto e la stessa maliziosa curiosità, con cui l’Autore ha saputo ripercorrere i suoi cinquanta anni di vita teatrale.
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Un altro libro, un altro ritratto umano e artistico. Un’altra lunga e bella storia teatrale. Il libro è Marco Sciaccaluga e il teatro, vita di un “minatore ostinato”, ed è un ritratto a tutto tondo del regista genovese fatto, in forma di intervista e con amichevole empatia, da Roberto Iovino (De Ferrari Editore, 2019). Nella lunga chiacchierata Sciaccaluga ripercorre le tappe della sua carriera e della vita passata, in gran parte se non interamente, al Teatro Stabile di Genova. Dalle prime “avventure” di teatro al liceo, al provino per la scuola dello Stabile, all’incontro con Luigi Squarzina, il giovane attore e futuro regista ha a che fare, sin da subito, con tutti i grandi della scena nazionale, che avevano con Genova, come è noto, un rapporto di particolare affetto. Inutile negare che la “scuola genovese” sia stata, e sia ancora, tra le più vivaci d’Italia: sforna a getto continuo interpreti di qualità, registi attenti e preparati, e può vantare maestranze sempre di assoluto livello. Con Sciaccaluga il lettore può ripercorrere alcune fasi saliente della storia teatrale recente, evocando i “grandi nomi”, a partire da Ivo Chiesa, burbero benefico del teatro genovese, e Eros Pagni, Gilberto Govi, Lina Volonghi e Gabriele Lavia, poi Benno Besson e Mathias Langhoff, Vittorio Gassman e e tanti, tanti altri, fino ad arrivare ai più recenti protagonisti del tanto teatro diretto da Sciaccaluga: Alice Arcuri, Andrea Nicolini, Vittorio Franceschi, Elisabetta Pozzi, Orietta Notari ma anche Mariangela Melato o Franco Branciaroli o ancora molti altri. Ma il libro è interessante anche perché trasmette una “idea di regia”, una pratica che ha anche il gusto antico di un sapere tradizionale e continuamente rinnovato, una ricerca basata su criteri oggi esplosi ma che hanno strutturato un secolo di lavoro teatrale: il libro è infatti un appassionante racconto di un approccio ai testi, alle opere di drammaturgia, che hanno segnato il percorso registico di Sciaccaluga. Dall’incredibile successo di Equus, diretto a ventun’anni, fino ai Brecht, ai tragici francesi o ai testi contemporanei (magari realizzati in collaborazione con la scenografa Valeria Manari, a lungo compagna di lavoro e di vita), escluso Aristofane, che Sciaccaluga non ha mai voluto affrontare. Anche qui non mancano brillanti aneddoti (su tutti un episodio avvenuto a casa Strehler, ma anche altri momenti esilaranti della vita in scena), e numerose affettuose testimonianze di artisti, attrici e attori che dicono la loro sul lavoro fatto con Marco Sciaccaluga. A completare il volume, una dettagliata teatrografia.
Chiudo questa breve carrellata con il bel libro curato dalla giornalista e studiosa Silvana Matarazzo e dedicato al lavoro di un regista appartato e geniale come Giancarlo Sepe. Il mondo magico di Giancarlo Sepe; questo il titolo del volume edito ad Zona, con prologo di Umberto Orsini e postfazione del critico Marcantonio Lucidi.
“Sono nato a Caserta il 23 marzo 1946 da una signora beneventana che suonava il pianoforte e che voleva fare la ballerina ma il matrimonio glielo impedì”: inizia così il lungo, articolato, approfondito racconto che il regista fa di sé a Silvana Matarazzo, che sa incalzarlo con garbo, sa guidare e tenere le redini di una conversazione che tocca temi alti e ricordi personali. Confessa ancora il regista: “Se dovessi riassumere con poche parole la mia voglia di fare teatro, risponderei senz’altro, che è nata dalla suggestione di un bambino che guarda, che guarda e ascolta gli altri”. Eppure quel bambino è stato capace di creare un proprio stile e un proprio spazio: il nome di Giancarlo Sepe è legato al Teatro La Comunità, il piccolo spazio dietro Viale Trastevere, nel cuore di Roma, che è, dal 1972, un collante tra la storica epopea delle “cantine” romane e la contemporaneità. Perché, nonostante Sepe abbia ovviamente diretto e interpretato spettacoli in altri teatri (dalle grandi istituzioni ai festival, a partire da quello di Spoleto) è alla Comunità che ha saputo elaborare un codice scenico unico, personalissimo. Ma con grazia Sepe ricorda il suo primo “successo”, con I misteri dell’amore, di Roger Vitrac. Racconta il regista: “una sera, durante una delle repliche dello spettacolo, ricordo che si presentarono due persone anziane, gli unici due spettatori per quella sera. Dopo qualche titubanza iniziale, facemmo lo stesso lo spettacolo, nonostante l’esiguità del pubblico presente. Ma quelle due persone, alla fine scoprimmo che erano Nicola Chiaromonte, l’autorevole critico dell’Espresso, e sua moglie. Quella sera è stato l’inizio del mio primo vero grande successo. Non molto tempo dopo, infatti, uscì sul noto settimanale un articolo di Chiaromonte che definiva I misteri dell’amore “Lo spettacolo più bello visto negli ultimi dieci anni”. Seguirono sei mesi di repliche…”.
Un libro appassionato e appassionante, profondo, che sa svelare il teatro e la città, gli artisti e le storie, le vicende di un piccolo spazio “funzionale”, e una creatività che non fa altro che confermare l’assoluta originalità di ricerca: «Anche i critici hanno sempre riconosciuto questa mia assoluta mancanza di prevedibilità, che mi permette di sperimentare costantemente, di non ripetermi, anche se spesso sarebbe più semplice farsi etichettare in qualche modo, perché la riconoscibilità offre maggiori garanzie per essere inclusi nei cartelloni teatrali». Inaugurato con Ubu Roi, La Comunità è da sempre un punto di riferimento: se nel 1977 tra gli spettatori dell’apprezzatissimo In Albis erano anche Fellini e la Masina (ma sono davvero tante le celebrità che hanno applaudito il teatro di Sepe) lo spazio di Trastevere non ha smesso di essere una fucina. E lo sarà anche in futuro, visto che il regista non esita a dire a Matarazzo che vorrebbe mettere in scena La montagna incantata di Thomas Mann, o La corriera stravagante di John Steinbeck o ancora il diario di un curato di campagna di Georges Bernanos e infine La vocazione teatrale di Wihlem Meister, un’idea già da tempo accarezzata.
Teatro da leggere, insomma, anche e soprattutto in tempi mefitici, per respirare un po’ di più, un po’ meglio, guardando al passato per pensare con maggiore lucidità a dove andare nel futuro prossimo, quando l’emergenza – si spera presto – passerà.
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