Teatro

Carlo Cecchi e Luigi Pirandello: Enrico IV diventa un capolavoro

24 Febbraio 2019

Non so se sia lo spettacolo più bello della stagione, certo è uno dei più feroci. E dei più delicati.

Sto parlando dell’Enrico IV di Pirandello, con la regia e l’interpretazione di Carlo Cecchi.

Feroce perché è una parodia graffiante di tutto il ciarpame pirandelliano, del cascame psicoanalitico e borghese, del gioco del “teatro nel teatro” (che qui si fa teatro nel teatro nel teatro nel teatro…). E non c’è spazio – ma mi spiegherò tra poco – per la versione banalizzata della famosa, asfissiante, dicotomia “Teatro/Vita”. Ma questo lavoro è delicato, perché nel far piazza pulita delle apicali e sotterranee pulsioni intellettuali pirandelliane, Cecchi, forse come non mai, assume lo spettacolo a paradigma della propria esistenza.

La storia, si sa, narra una vicenda di un uomo e di una fissazione: per una grossolana caduta da cavallo, rimane incastrato in una “mascherata”; ossia in una vita posticcia, teatrale appunto. Sceglie la messainscena per sfuggire a un amore fallito, a una realtà indisponente e volgare, a un mondo, insomma, che non lo accetta. Allora “diventa” Enrico IV di Sassonia, l’imperatore, con tutto il portato storico che ne consegue. Si rifugia nel teatro e rifiuta di uscire dal castello posticcio dei suoi sogni. Se per Pirandello le ragioni di quell’isolamento erano da condurre al trauma (della caduta, dell’amore), per Cecchi la questione è più aspra e viva: è di “vocazione”.

 

Foto di Matteo Delbò

Allora, forse, è bello tornare con la memoria alla storia di questo artista, ri-conoscere quel suo teatro sempre lievemente e sapientemente incompleto, ironico, paradossale e parodistico per cogliere appieno le infinite sfumature di un simile Pirandello virato a un gioco al massacro, alla misantropica e aspra autoanalisi, stancante e faticosa proprio come stare in scena.

Se ne frega dell’Autore, Cecchi, più o meno sempre: nella sua lunga e vivacissima carriera, ha smontato dal di dentro i numi tutelari della drammaturgia. Shakespeare (come non ricordare la Trilogia palermitana?) e Pinter, Büchner e Bernhard fino a Eduardo De Filippo con quel memorabile Sik Sik l’artefice magico che prelude, e si potrebbe forse collegare, alla esplosione di questo Enrico IV di Pirandello, autore peraltro già affrontato in un paio di memorabili occasioni.

Il commovente mascheramento di Enrico, diventa per Cecchi, per questo burbero maestro, il gioco della vita:  della radicale, assoluta, vertiginosa dedizione al teatro. Dunque Pirandello è un pretesto in un continuo entrare e uscire dalle battute del copione, tenuto sempre a vista da uno dei personaggi: testo interpolato, modificato, evocato, smentito. La drammaturgia è una moltiplicazione di specchi e di risonanze, tra illusione e verità. Ma qui, la verità è solo quella dell’Attore – o degli Attori – che si assumo il rischio di esistenze disadattate e disagiate pur di vivere la Scena; è la cosciente, consapevole, assunzione dell’immaginario teatrale sullo squallore del reale.

 

Foto Matteo Delbò

Carlo Cecchi si lancia in un paio di tirate, tra evocata improvvisazione e caustica determinazione, sul divario abissale che esiste tra realtà e palcoscenico: «ecco il mondo che ha voluto la maggioranza» dice più o meno, indicando la platea. Il mondo là fuori, fuori dagli stucchi e dai velluti, dalle corone di cartapesta e dagli improbabili costumi medioevali, è quello che tutti conosciamo e subiamo. È il razzismo, la sopraffazione, la violenza, la corruzione, il fascismo, è quel Mussolini che non a caso riecheggia da una radio accesa in scena. Pirandello, lo sappiamo, farà i conti a modo suo con il Duce. Ma oggi? Che si può fare oggi?

Allora, ecco il rifiuto netto di Cecchi, l’andare contro – negli strumenti e nei modi del teatro – è la chiave per una resistenza, è la condanna e la scelta di stare là sopra, per tornare alla poesia, alla magia ingenua di Sik Sik. Strampalata, povera, eppure struggente poetica del palcoscenico. È un tuffo al cuore. Il bilancio di una vita: positivo o negativo? Certo amaro, rabbioso, commovente.

Scavalcando (e non cavalcando) Pirandello, prendendolo in giro, facendo il verso alle cervellotiche battute dell’Agrigentino – «come dice qui?» chiede spesso – Cecchi rompe le maglie di una partitura troppo stretta e per lui pedante, svicola, sembra non ricordare (e magari non ricorda, e ci tiene sornione nell’attesa) ma tesse le fila di un ragionamento serissimo. Assieme ai suoi sodali spinge il pubblico in territori dove il teatro, ancora una volta, è onorato e ribaltato, è demistificato e rivitalizzato.

Nelle scene di Sergio Tramonti, solo delle quinte a vista, Cecchi si svela nella finzione assoluta: altro che Artaud, pure chiamato in causa non senza ironia, il palco è il luogo della passione e dell’amore, dell’incanto e del dolore.

Da grandissimo “non-maestro” qual è – non dimentichiamo che tanti dei protagonisti del teatro italiano arrivano dalla sua “bottega” – Carlo Cecchi non si stanca di circondarsi di giovani che si affiancano a compagni di lungo corso. Nel cast, la qualità di Angelica Ippolito, Gigio Morra e Roberto Trifirò che sono gli autorevolissimi decani di un gruppo cui danno linfa anche il notevole Edoardo Coen come Momo, il bravo Vincenzo Ferrera, con Dario Caccuri, Davide Giordano, mentre un po’ rigidi mi sono sembrati Chiara Mancuso, nella non facile parte della figlia Frida, e Remo Stella nei panni del marchese Carlo

Prodotto da MarcheTeatro, visto in un Teatro Argentina di Roma tutto esaurito, Enrico IV ha scaldato il pubblico, sorpreso le scolaresche convenute, spiazzato gli ortodossi pirandelliani.

La storia, quella di Pirandello, come è noto finisce con un omicidio: Enrico uccide il Barone, antico rivale in amore. Qua, evocato con ironia Compare Turiddu, consumato l’epilogo, il capocomico Cecchi dice prosaicamente all’attore Trifirò: alzati che domani abbiamo un’altra replica. Non è certo il trito refrain “the show must go on”, è semmai la vita che va avanti. E senza troppe cerimonie gli attori girano le spalle e se ne vanno.

 

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