Storia
L’Italia: uno Stato «disastroso e disastrato». Parola di Bakunin
Dell’Italia Michail Bakunin ha l’immagine del paese caratterizzato da un’amministrazione corrotta e dunque destinato a darsi un protettore. Così scrive nelle prime pagine di Stato ed anarchia, il suo testo più noto. Uno stato, L’Italia, scrive nel 1871 in un documento dal titolo Lettre à mes amis en Italie, «disastroso e disastrato», che «si mantiene a stento solo schiacciando il paese sotto il peso delle imposte mentre quel tanto che rimane a quest’ultimo serve a foraggiare la consorteria».
Il testo insieme ad altri è proposto per cura di Lorenzo Pezzica in un’antologia di scritti di Bakunin dedicata all’Italia. Una raccolta uscita nel 2013 e che ora Eleuthera giustamente rilancia.
Il lettore che con pazienza, ma anche con curiosità volesse aprire questa raccolta intrigante e molto sapida, scoprirebbe vizi che hanno una lunga storia, così evidenti da non sfuggire all’occhio di chi, con un minimo di applicazione, si dedicasse a conoscere il mondo profondo dell’Italia.
Michail Bakunin arriva in Italia nel 1864 (vi rimarrà fino al 1867) con il proposito di organizzare una nuova opposizione politica dopo il mazzinianesimo che giudica finito. Ma, Bakunin è una persona curiosa e dunque non si perde nel confronto settario.
In quel triennio osserva l’Italia reale e ne coglie gli elementi essenziali con un occhio da antropologo come sottolinea giustamente Lorenzo Pezzica:
- un sistema fiscale vessatorio e soprattutto inefficace;
- una gestione personale e piuttosto disinvolta del potere;
- una diffusa “questione morale”;
- lo strapotere della burocrazia e della consorteria che giudica “la casta statale per eccellenza, una vasta congrega di persone ‘integerrime’ dedite a predare con sistematicità la povera Italia” [p. 85];
- la presenza invasiva della Chiesa.
E non è solo lo sguardo acuto sui problemi a rendere sorprendenti le pagine che Lorenzo Pezzica ha scelto per farci vedere l’Italia di allora (ma con molte analogie con quella di ora) attraverso l’occhio “puntuto” di questo russo “catapultato” in Italia.
Importanti sono anche le parole che Bakunin usa nei suoi scritti e nelle lettere ai suoi amici.
Parole che popolano il nostro vocabolario attuale: casta, disonestà, moralità, immoralità, brigante. Fra tutte emerge una metafora: “praticismo politico”. che così descrive:
“In Italia il partito unitario costituzionale – scrive nel 1866 in un testo dal titolo “La situazione itaiana” – è stato frainteso. Composto in gran parte da sedicenti repubblicani che avevano perduto la fede nel Dio e nel Popolo del loro maestro, si è radunato sotto una vaga e mendace bandiera che ha chiamato praticismo politico [p.65; una scena che al cinema Mario Martone ha riproposto nella sua genealogia e nel suo esito con Noi credevamo e nel personaggio ambiguo e di Francesco Crispi).
Una parola attraverso la quale egli dà figura a una cosa che ancora non ha un nome ma che è destinata ad avere grande spazio nella storia italiana, di allora e di ora: il trasformismo. Un comportamento privo di coerenza ideale e proiettato solo a perseguire immediati interessi particolari al punto da stringere alleanze con chiunque sia idoneo a consentire il conseguimento dell’obiettivo prefissato.
Un profilo che nella storia dell’Italia unita ha una lunga storia.
Bakunin lo imputa in gran parte agli eredi del mazzinianesimo.
Una sinistra:
1. piena di parole (per la quale “il popolo è una parola astratta che indica tutti gli abitanti”);
2. priva di un programma capace di coinvolgere le masse popolari (anzi, scrive, che ha i medesimi effetti della monarchia costituzionale: dispotismo, ineguaglianza, declino, bancarotta”);
3. che predica la rivoluzione, ma che non la vuole [pp. 125-130].
Ma anche un paese che non sa trovare una propria collocazione e un proprio equilibrio.
«In questo periodo – scrive nelle righe di apertura de La situazione italiana – l’Italia si trova in una condizione triste e pericolosa. Tutti sono spaventati dalle funeste certezze dell’oggi e dalle ancor più temibili incertezze del domani. E in balìa di questi dubbi e paure, ognuno cerca sostegno nel consiglio e nella forza degli altri per rinforzare le proprie opinioni» [p. 59].
Un paese in cui le classi povere si affidano alla Chiesa perché è l’unica presenza di autorità sul territorio. Una condizione da cui non si esce, secondo Bakunin, propagandando l’anticlericalismo o il libero pensiero «perché la religione – scrive – non è solo un’aberrazione, un travisamento del pensiero, bensì è soprattutto protesta della natura vivente, potente, delle masse contro le ristrettezza della vita reale». […] «Il popolo va in chiesa come va in osteria, per stordirsi, per dimenticare la miseria, per immaginarsi, almeno per pochi istanti, eguale, liberi e felice al pari di tutti gli altri». [p. 95].
«La miseria più atroce – precisa nel 1873, esattamente centocinquanta anni fa – pur colpendo milioni di proletari non è ancora una motivazione sufficiente per far scoppiare la rivoluzione». [p. 107].
E aggiunge:
«Miseria e disperazione non bastano a scatenare la rivoluzione sociale. […] Per arrivare a questo è indispensabile che il popolo esprima un ideale comune che emerga, storicamente, dalle profondità dell’istinto popolare che sia alimentato, ampliato, illuminato da tutta una serie di avvenimenti significativi, di esperienze dure e amare; è necessario cioè che emerga un’idea generale dei propri diritti e una fede profonda, ardente, si potrebbe dire religiosa, in quei diritti». [p. 108]
Un secolo e mezzo dopo siamo ancora lì.
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