Storia

La memoria di Piazzale Loreto

13 Novembre 2020

Piazzale Loreto è un luogo tormentano dalla storia. Forse più propriamente dalla memoria, perché la storia a guardare con precisione ha lavorato poco in quello spazio. Forse anche per questo, quel luogo non riesce a trovare una sua fisionomia definita.

Cominciano dalla fine.

Ha ricordato recentemente lo storico Giovanni Scirocco come da circa un anno l’assessore all’Urbanistica del Comune abbia annunziato la pubblicazione di un bando per ridisegnare e riqualificare la piazza. Su quel progetto, ovvero sul destino di piazzale Loreto, è singolare che siano finora architetti e urbanisti, mentre la voce degli storici sia stata di fatto assente. Forse non ha torto Andrea Pinotti, docente di estetica all’Università statale di Milano quando osserva come Piazzale Loreto sia uno spazio urbano che da troppi anni ha assunto il carattere anonimo di un “non-luogo” (secondo la ben nota classificazione di Marc Augé) al massimo, precisa, uno svincolo di mobilità. In ogni caso un luogo che non si è consegnato alla storia.

 

Se questa dunque è la questione, la fatica di Massimo Castoldi col suo Piazzale Loreto. Milano, l’eccidio e il «contrappasso» [Donzelli] di ripercorrere dettagliatamente e documentariamente, spesso con acribia, quello spazio urbano legato ai due episodi cruciali che lo hanno fatto entrare nella storia (ovvero la scena dl 10 agosto 1944 e poi quella del 29 aprile 1945) ha fondatezza, ma forse anche una sua urgenza.

Partiamo dalla scena iniziale.

8 agosto. Un camion tedesco posteggiato vicino Piazzale Loreto subisce un attentato. Nell’attentato non muore alcun soldato e le vittime sono invece civili milanesi, 6 morti e 11 feriti.

Il capitano delle SS Theodor Saevecke ordina al capitano Pasquale Cardella di fucilare alcuni partigiani per rappresaglia contro un’azione ai danni dei soldati tedeschi. Vengono così scelte 15 persone in quel momento in carcere a San Vittore.

Fino all’arrivo a Piazzale Loreto la scena è quella di un trasporto, nel complesso non sembra che avvengano stranezze. La scena cambia radicalmente una volta fatti scendere i designati all’esecuzione in Piazzale Loreto. Prima la confusione, poi un’esecuzione che assomiglia più a una mattanza che a un plotone di esecuzione; poi la gestione dei corpi dei martiri da parte dei militi fascisti e dell’occupante come dimostrazione di chi garantisce l’ordine, ma anche in risposta a una solidarietà per i martiri che immediatamente si manifesta nei molti modi in cui i milanesi in quel giorno in cui i corpi dei martiri rimangono esposti sulla piazza a “maggior gloria” di chi ha compiuto la strage, si recano in piazza, lasciano fiori, guardano quei corpi uccisi.

Anche per questo quell’elenco di martiri è significativo. Perché testimonia di una dimensione in cui conta molto la loro socialità. Non solo. Quell’elenco è rappresentativo della dimensione plurima della scelta resistenziale. Anche per questo vale la pena nominarli, accompagnando il loro nome alla data di nascita e alla loro professione.

Questi i loro nomi.

Gian Antonio Bravin (1908), commerciante;

Giulio Casiraghi (1899), tecnico della Ercole Marelli di Sesto San Giovanni;

Renzo Del Riccio (1923), operaio meccanico;

Andrea Esposito (1898), operaio;

Domenico Fiorani (1913), perito industriale;

Umberto Fogagnolo (1911), ingegnere alla Ercole Marelli di Sesto San Giovanni;

Tullio Galimberti (1922), impiegato;

Vittorio Gasparini (1913), dottore in economia e commercio;

Emidio Mastrodomenico (1922), agente di PS;

Angelo Poletti (1912) operaio;

Salvatore Principato (1892), militante socialista e perseguitato politico sotto il fascismo;

Andrea Ragni (1921), partigiano appartenente alle formazioni Garibaldi;

Eraldo Soncini (1901), operaio alla Pirelli Bicocca;

Libero Temolo (1906) operaio alla Pirelli Bicocca;

Vitale Vertemati (1918), meccanico

Nominarli non è un capriccio, perché il senso del libro e anche la scrittura decisamente concentrata sull’antefatto, sullo svolgimento e poi sulla memoria di quell’eccidio sta, più che nel titolo, soprattutto nel sottotitolo.

Il «contrappasso» a cui allude Castoldi è quello tra la scena che si svolge a Piazzale Loreto (nella bocca di tutti in quel momento “piazzale dei Quindici martiri”)  nella giornata del 28 aprile i partigiani della Valsesia alla guida di Cino Moscatelli si recano nelle prime ore di Milano Libera in quella piazza, più precisamente sull’angolo tra la piazza e l’inizio di Corso Buenos Aires per tornare sul luogo dove 9 mesi prima, il10 agosto 1944, si è consumata una strage di partigiani, una esecuzione in piazza con esposizione dei corpi e loro non rimozione per 24 ore “perché la città vedesse” che cosa significava rappresaglia, ma anche fosse chiaro “chi comanda”.

La scena successiva è quella del 29 aprile ed è quella della presenza dei corpi di Benito Mussolini e di altri gerarchi che vengono portati in quella piazza sull’onda soprattutto di quell’eccidio di nove prima e poi esposti, perché il pubblico veda che è finita la tirannia. Quella esposizione in tutto dura tre ore poi i corpi vengono portati via in una scena in cui la alla folla urlante fa da contraltare la direzione del CLN sostanzialmente in silenzio, convinta che quella scelta di portare i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti e, ancor di più, l’esposizione pubblica, sia un atto profondamente sbagliato.

C’è un terzo tempo di quella piazza e avviene il 30 aprile. “Una piccola folla questa volta silenziosa -scrive Castoldi – era in Piazzale Loreto con le vedove, i figli e i compagni dei Quindici martiri a raccogliere offerte per celebrarne degnamente la memoria” [p.170]

Il «contrappasso» è proprio qui: nella immediata scomparsa della terza scena, nella rapida eclissi della prima scena che si consuma nel giro di pochi anni quando la stagione dell’antifascismo entra in crisi e nella dimensione esclusivamente concentrata sulla seconda scena.

Un’attenzione esclusiva su quella seconda scena che inizialmente è proposta e dalla area comunista (il primo a parlarne in una celebrazione del 10 agosto 1950 è il senatore Arturo Colombi). Processo che vive di due fenomeni: da una parte la marginalizzazione della Resistenza e del suo valore morale in una parte dell’opinione pubblica (è significativo che la scena dei “Quindici Martiri” di Piazzale Loreto e la celebrazione della giornata del 10 agosto già nel1949 avverta l’inizio di una freddezza di molti partiti politici e della stampa d’opinione (significativa è la scelta, già chiara in quegli anni, del “Corriere della sera”); che la presenza del Comune di Milano sia espressa dal suo Sindaco, una figura simbolica della ricostruzione come Antonio Greppi, ma che la presenza politica di altri sia diradata; e contemporaneamente che chi rivendica la memoria di quella piazza abbia la preoccupazione non di evocare il dolore, o la sofferenza, o la partecipazione, ma insista con l’idea di riscatto, di riparare al torto. Così l’eclissarsi di una visione unitaria della Resistenza produce la definizione, nella memoria, di una dimensione guerresca mettendo da parte la riflessione su quei temi della partecipazione civile, sulle molte forme di partecipazione, che significativamente torneranno nella riflessione pubblica dopo un lungo ciclo, alle soglie della fine della Prima Repubblica, nel 1990 con l’uscita di Una guerra civile di Claudio Pavone.

 

In mezzo stanno due aspetti che molto hanno contato nell’immaginario e che la relatività artistica ci ha consegnato già nei primi anni 50, ma che poi hanno avuto destini, memoria e presenza nell’immaginario pubblico molto diverse.

Da una parte sta la rappresentazione dei martiri fatta da Aligi Sassu dal titolo Guerra civile (piazza Loreto), anche se è poi universalmente noto come I martiri di Piazzale Loreto una rappresentazione iconografica che ricorda molto I fucilati del 3 maggio 1808 a Madrid di Francisco Goya; dall’altra due composizioni di Salvatore Quasimodo, la prima del 1952 Ai quindici di Piazzale Loreto e la seconda Laude. 29 aprile 1945. Nel tempo, significativamente, la seconda sopravanzerà la prima. Del quadro di Aligi Sassu, ci siamo persi la memoria.

 

Ora quella dimensione invece è parte delle scelte dei “Quindici martiri” (ricordo scelti tra le persone incarcerate a San Vittore, la notte tra il 9 e il 10 agosto a cui si dice che verranno inviati in un campo di lavoro) che deliberatamente Castoldi ricostruisce.

Quindici diversi percorsi morali e civili dove contano non le dichiarazioni teoriche o politiche o programmatiche, ma contano soprattutto i sentimenti, i legami di affetto, di amicizia, la scelta di partecipazione civile, il magistero dell’educatore e del formatore, ma anche di politico di Salvatore Principato uomo di cinquant’anni, la figura più strutturata di un gruppo di persone in gran parte costituito di ventenni e trentenni. In mezzo ci sono operai della Pirelli, il meccanico Renzo del Riccio, 20 anni, il più giovane dei martiri).

Ma poi insieme stanno i famigliari, la rete della solidarietà, la convinzione che aderire all’impegno resistenziale implica avere un’idea di “noi”, superare la dimensione autoriferita dell’“Io” avere un senso e una misura di che cosa significhi “battaglia di civiltà”.

Si potrebbe pensare che la ricostruzione di quella scena, ma soprattutto la dinamica che conduce all’eccidio del 10 agosto 1944 e poi alla lenta eclisse di quella memoria siano il motivo principale di una ricostruzione dettagliata e attenta da parte di Castoldi.

Certamente questo è un motivo. E a un primo livello questo è ciò che ha spinto Castoldi a scrivere, come dichiara lui stesso fin dall’inizio.

Ma non è l’unico motivo e infatti è bene considerare anche un altro aspetto, su cui Castoldi invita a riflettere nelle pagine conclusive.

“Non so cosa possa fare più impressione, ma si sbaglia quando si confondono il cadavere di un tiranno, ucciso perché responsabile idealmente della morte di milioni di persone, quello di un passante innocente che viene dilaniato da una bomba, e quello di un uomo che p stato ucciso da un potere violento e corrotto, perché ha dedicato la propria vita a combatterlo per conquistare la libertà di un intero popolo. Rappresentano tre storie diverse, sia pure tutte tragiche, e non possono essere confuse tra di loro. Se si confondono, non si scrive la storia”. [p. 216]

 

Questo ci riguarda molto da vicino e parla di noi e a noi, nel tempo attuale.

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