Fu vera gloria?
“Fu vera gloria, ai posteri l’ardua sentenza”.
E’ la domanda che Alessandro Manzoni si pone nel famoso componimento poetico, scritto alla notizia della morte di Napoleone Bonaparte avvenuta nell’esilio di Sant’Elena il 5 maggio 1821.
Nemmeno Manzoni se la sentì, dunque, di esprimere un giudizio sull’uomo e sull’opera di uno dei personaggi più illustri e controversi della storia europea.
La sua difficoltà nasceva dal fatto che Napoleone era stato uno di quei protagonisti della storia che avevano suscitato, non solo fra i contemporanei, grandi entusiasmi e immensa ammirazione – “Bonaparte ha reso a Dio il più possente soffio di vita che abbia mai animato l’argilla umana” scrisse Francois-René de Chateaubriand – ma anche, in molti casi, viscerale disprezzo e profondi rancori.
Come accadde a Ugo Foscolo che, inizialmente, gli dedicò l’enfatica ode “A Bonaparte Liberatore” e poi – disilluso – nel dramma Aiace, lo dipinse come un despota spregiudicato e un immorale guerrafondaio.
Fra i detrattori ci fu pure il grande scrittore Leone Tolstoj che, animato da spirito patriottico e indignato per l’aggressione delle armate francesi alla Santa Madre Russia, gli riservò nel suo Guerra e Pace un giudizio molto pesante, “mai, egli infatti scrisse, sino alla fine della sua vita, egli riuscì a intendere né il bene, né la bellezza, né la verità, né il significato dei propri atti, troppo contrari al bene e al vero, troppo lontani da ogni sentimento umano perché egli ne potesse intendere il significato.
Egli non poteva sconfessare i suoi atti, esaltati da mezzo mondo, e perciò doveva rinunziare al vero, al bene e a tutto quello che è umano”.
Indubbiamente Napoleone, uomo freddo e razionale come indicava il suo amato Niccolò Machiavelli, non fu il liberatore dei popoli, come retoricamente è stato cantato, più prosaicamente è stato un conquistatore di territori da asservire al suo dominio imperiale in ciò agevolato della sua indiscussa genialità tattica.
Nessuno – ad eccezione del citato Tolstoj che parteggiava per il generale Michail Kutuzov – mise mai in dubbio il suo genio militare.
Napoleone mandò, peraltro, all’aria il tradizionale modo di fare la guerra, infatti sfruttò molto la mobilità delle sue truppe e, soprattutto, valorizzò il merito di ciascun combattente. Insieme ai suoi generali, fu sempre accanto ai suoi soldati che trattava amorevolmente e blandiva generosamente.
Non sorprende che ripetesse una frase rimasta memorabile e cioè che “ogni soldato francese porta nella sua giberna il bastone di maresciallo”.
Ma fu tanto prodigo di elogi nei confronti di chi mostrava virtù eroiche fu, altrettanto, spietato con chi si fosse macchiato di viltà.
Sul piano della tecnica militare portò, ad esempio, delle grandi innovazioni nell’uso dell’artiglieria – Bonaparte nasce infatti come ufficiale di artiglieria – concentrando il fuoco su settori specifici dello schieramento avversario, così da creare quei vuoti entro i quali poteva insinuarsi con le sue colonne, sconvolgendo la tattica degli eserciti regolari.
Ma l’arma più efficace, di cui poteva menar vanto, era data dall’indiscusso carisma che i suoi soldati gli riconoscevano affidandosi in modo cieco alle sue decisioni, un carisma divenuto culto che lui stesso sapeva alimentare anche con la vicinanza e l’attenzione nei riguardi di ciascuno di loro. Napoleone, resta un mito che ha travalicato i confini del suo tempo per essere consegnato, perfino in termini metafisici, alla venerazione dei posteri.
Non per nulla il padre dell’idealismo, il filosofo tedesco George Friedrich Hegel, vedendolo passare sotto la sua finestra, esclamava di avere visto lo spirito del mondo a cavallo.
Non meraviglia dunque che, seppure nel corso delle sue spettacolari campagne militari i suoi eserciti abbiano subito – oltre quelle famose di Lipsia e di Waterloo – ben dieci clamorose sconfitte, non ne sia stato minimamente compromesso il mito della sua invincibilità e che quelle disfatte venissero imputate ad errori altrui.
Se è, poi, vero, che liquidò, con grande spregiudicatezza, quello che possiamo definire lo spirito dell’ottantanove, ripristinando il principio monarchico-imperialistico – “l’imperatore si è trasformato in un monarca vecchia razza” sono ancora parole del fondatore del romanticismo letterario francese, cioè René de Chateaubriand – e che abbia in conseguenza archiviato democrazia e autodeterminazione dei popoli, è anche vero che il suo sconvolgente passaggio chiuse, ed in modo definitivo, l’epoca dell’ancien régime aprendo le porte ad un’era nuova in cui cambiava radicalmente la interpretazione della vita dello Stato e la logica stessa dei rapporti economici e sociali.
Bonaparte ha, infatti, inventato lo Stato amministrativo e le sue riforme sono state così incisive da diventare modello a cui, obtorto collo, furono costrette ad adattarsi – è il caso ad esempio dell’iper-reazionario Regno delle Due Sicilie che conservò il Code civil imposto a Napoli da Gioacchino Murat, il cognato di Napoleone – anche i suoi avversari più irriducibili.
Dunque, nel giudizio, quello a cui ci rimanda Manzoni, si alternano luci ed ombre che giustificano ora entusiasmi ora biasimo ma che, come ogni vicenda storica, appare chiaro debbano fare i conti con quella opportuna operazione di contestualizzazione che ci permette di guardare agli eventi del passato senza correre il rischio di cadere nella trappola, purtroppo oggi molto diffusa, di una loro banale o strumentale lettura ideologica.
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