Storia
Cecità all’Apocalisse e comandamenti dell’era atomica
Più o meno due anni fa, durante il lock down, nei lunghi pomeriggi passati da solo in casa in compagnia di vecchi film, ne ho rivisto uno che andai a vedere da piccolo al cinema e, allora, mi aveva terrorizzato, The day after. Parlava dello scoppio di una guerra nucleare e degli immediati giorni successivi, in una cittadina dell’America profonda. Rivederlo due anni fa non mi ha fatto quasi nessun effetto, mi è parso brutto, una produzione di serie b con immagini di repertorio e cattivo doppiaggio. Oggi, domenica 13 marzo 2022, lo ho rivisto, e neppure adesso mi ha terrorizzato, – anzi, alcune scene un po’, e ne parleremo – eppure ho fatto caso a una cosa che non avevo notato appieno: l’apparente banalità delle storie che vi si narrano (anzi vi si accennano: vite comuni, piccoli rapporti familiari appena accennati) di fronte all’enormità inimmaginabile di quello che sta per succedere. Il film non è un colossal, né ha accenti eroici. È molto sobrio, un po’ squallido, ma proprio questo suo realismo banale è oggettivamente disturbante. Un’altra cosa che si descrive nel film è l’automatismo quasi idiota con il quale un meccanismo di azione-reazione a una piccola crisi regionale, attraverso processi di obbedienza “banale” e irriflessiva a ordini erogati per via gerarchica, fa precipitare il mondo in una catastrofe sproporzionata. Tutti lì a preoccuparsi delle cose banali dell’esistenza, minime ma importantissime per ognuno, amori, salute, lavoro, la casa, lo studio, le liti familiari, il figlio che accompagni alla partita… E intanto la Cosa lavora. L’enorme Dispositivo (quello che un triste filosofo tedesco chiamava Gestell), opera a predisporre l’ annientamento di ogni forma di vita umana, animale e vegetale su questo pianeta blu. Quel film è brutto, anche i dialoghi lo sono , ma ce n’è uno che mi ha colpito. Prima dell’inizio del bombardamento atomico, nella finzione, si racconta che due mig russi hanno bombardato con bombe convenzionali una base Nato in Germania Ovest, e vicino alla base hanno distrutto una scuola e un ospedale. Due anziani medici commentano: «Ci mettiamo tanto per salvarne uno di paziente, e quelli hanno abbattuto un intero ospedale. E poi la bomba atomica…Ma cosa sta succedendo al mondo? Siamo diventati pazzi?». L’ altro risponde: «No, siamo diventati stupidi». Seguono alcune scene nelle quali scorrono notizie sempre più concitate alla radio, di esplosioni nucleari in Europa. La gente della città si precipita ammassandosi nei supermercati, prepara cantine che serviranno – in ipotesi – come rifugi… Alcuni minimizzano quel che sta succedendo, non vogliono crederci, non riescono… Alcuni dicono: «Che c’entriamo noi con l’Europa. Perché siamo andati lì?…»
Le scene maggiormente da incubo – per me – sono quelle dell’attesa, e poi dell’esplosione della bomba. Ricordo che hanno abitato i miei incubi notturni per anni. Si vedono file di macchine che tentano di scappare da una città del Kansas. Poi d’improvviso si interrompe qualunque dispositivo elettromagnetico. L’elettricità, i motori, le radio. Segue un silenzio assoluto. La gente nelle macchine tenta di riaccendere i motori. Qualcuno corre. Poi una palla di fuoco e un boato sordo. La luce abbaglia e annichilisce chiunque, ma lascia qualche istante impercettibile per essere vista. Non si ha tempo di avere paura. Si precipita nel nulla in un attimo. Ne scoppia una seconda, una terza, una quarta. E si vedono le scene di distruzione, quelle che abbiamo visto sempre. Case spazzate come castelli di carta, fuoco, fumo, vento. Le scene successive “il giorno dopo”… appunto, vedono aggirarsi per un orizzonte grigio un’umanità che non è più tale, non più protagonista, ma parte di uno sfondo di tohu wa-bohu. Il caos prima della creazione della Genesi.
In questi giorni stiamo davvero vivendo la paura del terzo conflitto mondiale. Ma anche questo termine “conflitto” sarebbe inadeguato. Chiamiamolo come si deve: Apocalisse atomica.
Mi fanno tenerezza quelli che pensano di potersi salvare dalla bomba razziando supermercati e chiudendosi in un bunker. Do you know “inverno nucleare“?
Il fatto è che non riusciamo davvero a pensare né immaginare questo. E non sto parlando solo della paura, dell’angoscia che proviamo: parlo proprio di razionalità e immaginazione. La razionalità aiuta a comprendere i fenomeni storici (a posteriori, solo alla fine di un’intero processo- insegnava Hegel), ma non può fare nulla per cambiare le cose mentre il processo avviene. Per cambiare le cose, occorre porsi sul piano dell’azione. Tuttavia, di fronte alla tecnica che domina l’umanità, al Gigantesco, siamo sopraffatti da un meccanismo che non dipende più dalla nostra volontà singola. Siamo sproporzionati. Il punto è che dopo questo “processo”, dopo quello che a fatica potremmo chiamare Evento, non ci sarebbero più eventi, nessuno a poter comprendere quello che è successo, nessuno a raccontare la storia.
Fingiamo di non pensarci, perché i bias di sopravvivenza lo rendono impossibile da immaginare. Così come non si riesce a immaginare la propria morte. Abbiamo tutti molta paura dell’impensabile. Di fronte al pericolo atomico (alla «ragione atomica») il conflitto è solo un accidente, l’essenza è la Catastrofe. Forse ce ne siamo dimenticati, perché dagli anni ’80 non se ne parlava più. Ma siamo pieni, in Europa e nel mondo, di testate nucleari. (E l’Italia è la maggiore base Nato d’Europa). Il non detto che tutti ci attanaglia è l’angoscia (razionalmente fondata) della fine della nostra esistenza, e di quella di ogni vivente sulla terra
Gunter Anders, filosofo ebreo tedesco, primo marito di Hannah Arendt,
andrebbe riletto (o forse letto). Soprattutto L’uomo è antiquato, Vol 1, Bollati Boringhieri. Anders parlava di cecità all’Apocalisse, e ne individuava la radice nel «dislivello prometeico», (ivi pp. 219 e ssgg), il fatto cioè che le facoltà umane hanno un rapporto particolare con «misure di grandezza», ma di fronte alla dismisura della catastrofe atomica – che la tecnica umana può provocare- le nostre facoltà non hanno possibilità di (con)prensione. Possiamo capire, volere, immaginare eventi singoli, incidenti, catastrofi, perfino in una certa misura la nostra morte. «Ma di fronte all’Apocalisse (atomica) l’anima rimane inerte. L’idea resta una parola. Non siamo all’altezza del Prometeo che è in noi» (Ivi, p 252) Prometeo distruttivo.
Possiamo fare qualcosa? Forse possiamo iniziare a cambiare un pochino il nostro modo di pensare, e ritornare a quella che Hans Jonas chiamava l’euristica della paura. Lo stesso Anders in un breve testo che sintetizza il suo pensiero invita a una nuova forma di morale deontologica: «Comandamenti dell’era atomica». Per chi vuole almeno farsi un’idea del pensiero di questo autore, certamente ritornato di strettissima attualità, consiglio appunto questo breve articolo, così intitolato, pubblicato nel 1957 su un quotidiano tedesco. Ne trascrivo una parte centrale. (Il testo integrale, è qui)
«La porta davanti alla quale ci troviamo reca quindi la scritta: “Nulla sarà stato”, e sull’altro verso le parole: “Il tempo è stato solo un interludio”. Ma, in questo caso, il tempo non sarà stato un interludio fra due eternità (come speravano i nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di ciò che, nessuno potendolo ricordare, “sarà stato” come se non fosse mai stato, e il nulla di ciò che non potrà mai essere. E poiché non ci sarà nessuno per distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco quindi la nuova, apocalittica forma di caducità che è la nostra, e accanto alla quale tutto ciò che ha avuto finora questo nome è diventato un’inezia. – E perché questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: “Atomo”.
La possibilità dell’apocalisse
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: “La possibilità dell’apocalisse è opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo”. No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono di essa; poiché anch’essi sono come noi; anch’essi sono noi; anch’essi sono radicalmente incompetenti. È vero che questa incompetenza non è colpa loro, ma è piuttosto l’effetto di una circostanza che non si può attribuire a nessuno di loro né di noi: la sproporzione continuamente crescente fra la nostra facoltà produttiva e la nostra facoltà immaginativa, fra ciò che possiamo produrre e ciò che possiamo immaginare. Poiché, nel corso dell’epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia e azione si è rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati, considerare la fantasia “esorbitante”, esuberante, eccessiva, e cioè tale che superava e trascendeva l’ambito del reale, oggi i poteri della nostra fantasia (e i limiti della nostra sensibilità e della nostra responsabilità) sono inferiori a quelli della nostra prassi; per cui si può dire che oggi la nostra fantasia non è all’altezza degli effetti che possiamo produrre.
Non è solo la nostra ragione a essere kantianamente limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e – a maggior ragione – la nostra sensibilità. Possiamo pentirci, tutt’al piú, dell’uccisione di un uomo: è tutto ciò che si può chiedere alla nostra sensibilità; possiamo rappresentarci, tutt’al piú, l’uccisione di dieci uomini: è tutto ciò che si può chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila persone non presenta piú alcuna difficoltà. E ciò non solo per ragioni tecniche; e non solo perché l’azione si è ridotta a semplice collaborazione e partecipazione, a un “azionare” che rende invisibile l’effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioè perché la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita dall’immaginazione o dai sentimenti. – Le tue verità successive dovrebbero quindi essere queste: “L’inibizione diminuisce progressivamente con l’ingrandirsi oltre misura dell’azione”; e “L’uomo è minore (piú piccolo) di se stesso”.»
Günter Anders, “Frankfurter Allgemeine Zeitung” 13 luglio 1957, ora L’ultima vittima di Hiroshima, Mimesis, Milano-Udine 2016.
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