Il 24 ottobre 1917 è il giorno in cui inizia la disfatta di Caporetto. Una scena che ne contiene molte altre: la sconfitta, certamente, ma anche alcuni aspetti essenziali della storia italiana, di allora come di ora. Provo a indicarne alcune: come le sconfitte si subiscono, si raccontano, si spiegano. Ma anche, e soprattutto, di ciò che mettono in modo per replicarvi. In breve dei fatti, dei miti e delle macchine mitologiche che generano.
La notte tra il 24 e il 25 ottobre 1917 il fronte italiano all’altezza dell’Isonzo nei pressi di Caporetto è sottoposto un attacco durissimo da parte della artiglieria austriaca. All’alba entra in azione la fanteria. Non attacca frontalmente secondo una sceneggiatura ormai consolidata quella dell’avanzamento dalle trincee, ma si divide in piccoli gruppi. Il compito è: penetrare in profondità in un qualsiasi punto, accerchiare e prendere l’avversario alle spalle. La manovra riesce e per l’esercito italiano è il crollo.
È una tattica che lo Stato maggiore italiano rifiuta, ma che tutti gli eserciti impegnati sul fronte occidentale già nel 1916 applicano. E’ la risposta alle grandi battaglie campali del 1916. Una per tutte: la battaglia della Somme. Un solo dato: il primo giorno di battaglia (1 luglio 1916) si registrano 20000 morti e 40000 feriti. Alla fine, nel novembre tra francesi, inglesi e tedeschi il numero tra morti e feriti rasenta un milione. Terreno conquistato e sottratto all’esercito tedesco: pochi chilometri. Un fronte fermo lastricato di centinaia di migliaia di cadaveri.
La risposta già all’inizio del 1917 è dunque la manovra d’infiltrazione. Significa ufficiali addestrati e anche truppa preparata, armamenti adeguati, reparti scelti. Uno stile che non fa parte dell’esercito italiano. Quella nuova forma di combattimento non era una novità nella strategia e nella tattica militare di quei mesi. Lo era invece per l’esercito italiano, che si reggeva sui cardini del sistema di Raffaele Cadorna Capo di Stato Maggiore dell’Esercito italiano che significa: grossi reparti, rigida disciplina, divieto di iniziativa dei reparti inferiori, offensiva compatta e di massa.
L’esercito di Cadorna era organizzato per la guerra su un fronte statico con una artiglieria fissa sul fronte e le brigate d fanteria mandate avanti e coinvolte da un processo di ricambio veloce tra retrovie e prima linea perché vittime di una continua morte di massa. Caporetto è l’effetto di questa condizione e di quella convinzione. Non solo. Caporetto è anche molte altre cose: alcune marcano un tratto profondo nella storia italiana.
La prima: l’abbandono in condizione di solitudine. Il risultato immediato della disfatta di Caporetto (300.000 prigionieri) ma soprattutto altrettanti che in mancanza di una voce che dica cosa fare, che si presenti con una visione che predisponga la ritirata e nel frattempo prepari la controffensiva, risponde nell’unica maniera che ha: semplicemente, non avvertendo la presenza del comando, sentendosi sciolti da ogni vincolo, 300.000 soldati scendono disordinatamente a valle, abbandonano, molti riprendono la via di casa.
Nelle settimane centrali dell’autunno 1917 s’inaugura una scena che ventisei anni dopo s ripeterà: un generico “tutti a casa” che nasce non dalla codardia, ma dal senso di abbandono, dal non percepire una voce che dica che cosa fare. Quella decisione è conseguenza di un vuoto che poi nella storia italiana rimane simbolicamente legato al settembre 1943. Quella scena è anche figlia del silenzio dei comandi, e della convinzione dello Stato Maggiore che l’esercito, i fanti, quelli che abbandonano, siano già in fuga all’inizio.
Non è così. Cadorna ne è così convinto che già nel pomeriggio del 25 acredita come vera la notizia della rotta. In realtà lui è in fuga prima degli altri. Il 27 ottobre, prima della rotta che comincia in massa il giorno seguente (alcuni dati valgono per tutti: 1280.00 militari italiani fatti prigionieri; 350.000 militari sbandati; 40.000 tra morti e feriti; 400.000 civili in fuga) Cadorna abbandona Udine e con il suo Stato maggiore si trasferisce a Treviso, 100 chilometri più indietro. Ma già in quei giorni, e per la precisione il 25 ottobre, Cadorna è convinto che quel crollo sia soprattutto dovuto alla forza del “nemico interno”. Cui deve rispondere la necessità della mobilitazione per favorire la ripresa.
Qui sta il secondo elemento della storia nazionale che fa di Caporetto un pezzo coerente e pertinente nella storia nazionale: la convinzione che la sconfitta non sia il risultato di un deficit strutturale, ma l’effetto di un complotto, di un abbandono delle sfere alte che lasciano andare il paese. In breve che all’origine di Caporetto ci sia “il tradimento” e dunque per rispondervi occorra rinserrare le fila, e trovare una risorsa che consiste nella volontà di “buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ragion per cui si esce dalla crisi con un investimento di energie tutte soggettive, non strutturali.
Caporetto, proprio per questo non inaugura un nuovo tempo, ma conferma alcuni tratti profondi del carattere nazionale. Anche per questo, pur non essendo una data che è entrata del calendario civile (come l’8 settembre del resto) ha una capacità rappresentativa più profonda e significativa di altre.
Proprio perché anticipa altre scene che saranno proprie nella storia italiana da allora: da una parte la scomparsa o l’eclisse delle opposizioni; dall’altra la scelta del ricompattamento interno. Ma soprattutto ciò che inizia a prendere corpo è un luogo comune della retorica nazionale: la convinzione che la sconfitta o la disfatta siano la conseguenza del venir meno al patto da parte di una realtà, forse di minoranza, ma in ogni caso “potente” che va controllata, contenuta, respinta. L’idea dunque che la storia non sia che una mastodontica lotta d’innumerevoli e fedeli Venerdì, “uomini qualunque”, impegnati con tutte le loro forze a respingere l’attacco frontale disgregatore e dare così “gloria” alla nazione. Il mito della nazione proletaria nasce a Caporetto o forse, più propriamente, si rafforza e si consolida a Caporetto.
In controtendenza, si potrebbe dire, vedendo come poi è andata a finire circa un anno dopo, la sensazione che forse tutto si perda, ha l’effetto di ridare un orgoglio di volercela fare, di mettercela tutta anche in assenza di strategie, di risorse, “tirando l’anima”. Un aspetto che peraltro, già nel 1919 Giuseppe Prezzolini (Dopo Caporetto, Edizioni deLa Voce) faceva suo per cui la responsabilità dei comandi diventa un non-tema rispetto alla prova d’orgoglio con il contrattacco del 1918.
E’ la stessa scena che si ripeterà 65 anni dopo sul campo di calcio di Vigo, ai campionati del mondo in Spagna.
E’ il 23 giugno 1982 e a stento la nazionale italiana riesce a superare con fatica il turno pareggiando con la nazionale del Camerun e andare ai quarti di finale. Bisogna reinventarsi tutto: con gli stessi uomini, le stesse risorse, gli stessi strateghi del modulo tattico che fino a quel momento non ha dato grani risultati.Il resto è leggenda e finisce la notte dell’11 luglio 1982 con tutti a gridare con Nando Martellini “Campioni del mondo!”. Vittoria per una notte, con l’illusione di esser imbattibili per sempre.
Dura poco, poi di nuovo la storia consueta.
E il giro ricomincia, di nuovo imprecando al complotto, all’antinazione, agli scansafatiche.
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Interessante e condivisibile. Tranne per la conclusione. Certo, si può interpretare la vicenda calcistica dell’82 come un esempio di “ritrovato orgoglio” e “colpo di reni” nazionali. Ma in un articolo tutto dedicato a vicende politico-militari, che parla più volte, giustamente, dell’8 settembre ’43, suona un po’ curioso non fare almeno un riferimento alla lotta partigiana e agli anni ’43-’45.