Tennis
Restare Sinner in tre mosse
Jannik Sinner sembra lanciato verso un’altra finale agli Australian Open. Dopo un anno memorabile, l’azzurro può contare sulla solidità mentale, sull’attitudine al lavoro e su un bagaglio tecnico-tattico sempre più completo per restare al vertice del tennis mondiale
Nel già celebre discorso al prestigioso Dartmouth College, Roger Federer ha svelato ai laureandi che per vincere quasi l’82% delle oltre 1500 partite che ha giocato, ha conquistato solo il 54% dei punti. Ha così evidenziato due verità banali ma spesso sottaciute del tennis: la prima, che i punti non hanno tutti lo stesso peso; l’altra, che ogni punto, sia esso un mirabolante passante in corsa che diventa virale in rete o un tremebondo doppio fallo a mezza rete, è solo un “piccolo quindici”. Soltanto quei giocatori che imparano a metabolizzare ogni errore per continuare un più generale viaggio di crescita umana e tennistica, possono aspirare a vincere quei pochi punti determinanti e a lasciare il segno nello “sport del diavolo”.
Jannik Sinner ha finora dimostrato di brillare quando i punti contano di più, quando è più difficile mostrare quello “strano miscuglio di prudenza e abbandono che chiamiamo coraggio”. Nel 2024, si è aggiudicato due Slam, è diventato n. 1 del mondo, ha spadroneggiato alle ATP Finals e ha guidato l’Italia al bis in Coppa Davis. In autunno il suo dominio è apparso addirittura schiacciante, con 14 successi di fila e 26 set vinti consecutivamente, per un bilancio annuale di 73 vittorie e appena 6 sconfitte.
A giudicare dalla prima settimana degli Australian Open, Sinner pare aver ripreso da dove aveva lasciato, mentre è impegnato a confermare il successo dello scorso anno, una sfida che un maschio italiano non affronta da quasi mezzo secolo. L’ultimo a difendere un titolo dello Slam fu Adriano Panatta, che nel maggio 1977 mise in palio la corona del Roland Garros. Fu una difesa onorevole, terminata nei quarti di finale per mano del messicano Raúl Ramírez, ma è quasi certo che un risultato analogo da parte di Sinner susciterebbe un’amara delusione fra i suoi numerosissimi fan. Pochi sembrano consapevoli che l’eccellenza è sempre legata a equilibri fragili e precarissimi, che soprattutto nel tennis gli esiti sono una funzione della stabilità emotiva e psicologica (ogni riferimento al pendente ricorso della WADA sul caso doping è voluto), che a volte l’aver raggiunto la vetta è la via più breve verso la discesa – lo dimostra la precoce eliminazione di Daniil Medvedev, finalista un anno fa, ed estromesso a sorpresa da un giovanotto classificato ben oltre la centesima posizione.
Per fortuna, Sinner è conscio delle insidie che lo attendono e ben attrezzato per affrontarle. Le aspettative dei tifosi, comprensibilmente altissime dopo quasi cinquant’anni di vacche magre, e la pressione mediatica – che sa disinnescare quando serve, come dimostrano i cortesi dinieghi alla passerella sanremese – non l’hanno finora scosso più di tanto. Proprio Panatta gli ha spiritosamente attribuito una minacciosa camminata alla John Wayne, che altro non è che la manifestazione esteriore della sciolta consapevolezza con cui si è insediato al vertice del ranking mondiale: lungi dal venirne intimidito o limitato, Sinner ha finora imposto agli avversari il nuovo status di predatore “in cima alla catena alimentare”. È rimasto glaciale e imperturbabile, capace in ogni momento di sondare le alternative a disposizione e di imboccare i bivi cruciali delle partite. La peculiare miscela zen di “vuoto mentale e concentrazione”, coadiuvata dal preparatissimo allenatore Simone Vagnozzi e dal carismatico super-coach Darren Cahill, e un’ormai granitica fiducia nei propri mezzi, gli consentono di calibrare la prestazione sulla bravura dei rivali, spendendo solo le energie fisiche e mentali appena sufficienti a prevalere. In certe contese, questa impressione è stata così lampante che la suspense del match non è stata se Sinner avrebbe vinto o meno, ma quanto tempo avrebbe impiegato a farlo dopo aver scoperto a quale livello minimo attestarsi per riuscirci: in altre parole, lo stesso “trattamento” che Novak Djokovic ha riservato agli avversari in tutta la carriera. Nello sfibrante circuito tennistico odierno, avere così tanta autorevolezza e solidità è forse la base più salda su cui costruire una carriera generazionale, anche perché la stessa qualità è per ora ignota al suo più accreditato antagonista: lo spagnolo Carlos Alcaraz è infatti capace di un gioco spumeggiante e straripante quando è visitato dalle divinità del court, ma, appunto, soltanto quando è massima l’ispirazione.
L’abilità nel gestire la pressione è seconda soltanto all’enorme attitudine al lavoro, al rapporto quasi erotico con lo sforzo e la fatica. Sinner ha spesso dichiarato di provare piacere nel dedicarsi al lavoro ossessivo e ripetitivo cui ogni tennista è chiamato. Con felice sintesi, ha persino sostenuto che chi lavora di più ha più talento. Dopo essersi separato dal suo primo mentore Riccardo Piatti, sono state l’etica del lavoro e il tenace perseguimento di un progetto a lunga gittata a sorreggerlo. Conscio dei propri punti deboli, Sinner ha deciso di lavorarci su, accettando il rischio di un temporaneo regresso – materializzatosi nel peggioramento della propria classifica – in cambio dell’incerto beneficio futuro di un più complessivo affinamento del proprio bagaglio tecnico-tattico. I risultati gli hanno dato ragione, soprattutto perché ha continuato a crederci dopo alcune dolorose battute d’arresto, come quella contro l’arrembante Alcaraz a Flushing Meadow nel settembre 2022 o contro il mediocre Daniel Altmaier al Roland Garros successivo, maturate entrambe dopo aver vanificato un match-point.
La dedizione al lavoro sostiene il terzo pilastro su cui poggia l’edificio tennistico di Sinner, vale a dire un arsenale di colpi sempre più completo. Compendio di questa evoluzione è la battuta. Il servizio di Sinner non è sensuale e leggiadro come quello di Lolita nell’omonimo capolavoro di Nabokov, ma è un’arma temibile per numero di prime, varietà e precisione. I nerd delle statistiche gongoleranno di certo nell’apprendere che l’anno passato l’azzurro ha vinto al servizio il 71,1% dei punti, percentuale che sale al 73,6% quando deve fronteggiare una palla-break, col conseguente corollario del 91,5% di giochi vinti quando serve. Considerato che ha prevalso nel 76% dei tie-break giocati, ecco spiegato com’è possibile non perdere quasi mai!
Se si potesse entrare nella psiche di Sinner non è improbabile che si godrebbe dell’appagante diletto che può derivare dalle ipnotiche sedute di ripetizione dei colpi. Quelle che producono l’automatismo che riduce l’errore in gara; quelle che però inducevano Andre Agassi ad amare e al tempo stesso odiare il tennis; quelle che lo scrittore David Foster Wallace, lui stesso buon giocatore junior, descrisse argutamente come i gesti da compiere all’infinito sino a che non penetrano «oltre la coscienza fino nelle regioni più interne e attraverso la ripetizione sprofondano e imbevono l’hardware».
Quelle sessioni di lavoro sono l’autentico valore nascosto in bella vista di ogni tennista di successo ed è certo che ora Sinner le dedicherà all’ancora claudicante volée o al non del tutto affidabile rovescio tagliato, in un processo costante ma asintotico di miglioramento e accrescimento. Nessuno si aspetti però che possa un giorno emulare Federer per varietà, raffinatezza e imprevedibilità: a voler restare ottimisti, tuttavia, questo limite può persino convertirsi in un ulteriore vantaggio, dato che l’avere a disposizione un ampio ventaglio di soluzioni tecniche può talvolta tramutarsi in un paralizzante rovello psicologico o addirittura sfociare nel narcisismo inconcludente.
Questo pezzo è un voluto omaggio ai molti scrittori che hanno descritto la bellezza e la durezza del tennis con parole e lucidità ineguagliabili. Per chi volesse accompagnare lo svolgimento del torneo di Melbourne con la lettura di alcuni testi a tema, si segnalano quelli di David Foster Wallace, da “Infinite jest” a “Il tennis come esperienza religiosa”, ai saggi brevi sul tennista Michael Joyce e sulla biografia di Tracy Austin, contenuti in “Tennis, tv, trigonometria e tornado” e in “Considera l’aragosta”. Memorabile è “Tennis” di John McPhee e documentatissimo “Terribile splendore” di Marshall J. Fisher, sulle vite incrociate dei campioni Don Budge, Gottfried Von Cramm e Bill Tilden. Splendido è “Open”, la biografia di Agassi scritta insieme a J.R. Moehringer, mentre fra gli autori italiani vale la pena di indicare “I Tre. Federer, Nadal, Djokovic e il futuro del tennis” di Sandro Modeo e “Roger Federer è esistito davvero” di Emanuele Atturo, ma soprattutto la raccolta di corrispondenze di Gianni Clerici dal cosiddetto “Vaticano del tennis”, dal titolo “Wimbledon”. Chi volesse può rintracciarvi le molte citazioni e i riferimenti che punteggiano l’articolo.
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