Tennis

Il tennis

5 Luglio 2024

Mio padre mi diede i soldi per una racchetta da tennis che avevo 12 anni. Feci cinquanta metri di corsa e comprai quella che aveva in vetrina il cartolario vendotutto della piazzetta: un modello dal telaio di legno leggero e corde di natura molle. Era il peggio sul mercato ma costava di conseguenza, e noi si aveva il poco e il fiero. Non avevo mai colpito una pallina ma giocavo a pallone non stop. Respiravo pallone. Ogni angolo del quartiere conteneva un rettangolo utile. Eppure mi interessavano poco quei venti minuti con la sequenza dei gol la domenica sera, unica finestra concessa al tifoso, e mi guardavo invece tutto il tennis che trasmetteva la Rai (non c’erano alternative). Mi ipnotizzava quel tonfo secco e ripetuto e Panatta era tra i più grandi del mondo, che avevano tutti capelli lunghi e liberi. Come noi. Noi che giocavamo soprattutto da soli, contro il muro in cortile: pam, pam, pam, e fare più scambi possibili, nella sfida allo specchio, allenamento quotidiano. Le partitelle si improvvisavano ai due lati di una catena, tirata a separare lo spazio del cortile dove le macchine non potevano. Le righe laterali erano l’inizio del prato. Quella di fondo la indicava un ramo sdraiato. Insomma: non avevamo bisogno di maestri e campi prenotati, o meglio, ci facevamo bastare la strada, sempre lì ad aspettarci, gratuita e senza prenotazioni. Il nostro era un tennis proletario. Per niente Lacoste. Solo il tubo con le palline color limone aveva un’aria nobile, diversa, per chi usciva di casa con un pallone, sotto braccio come un fratello.

Un paio d’anni dopo, mentre Panatta vinceva il Roland Garros e l’Italia con lui la prima Coppa Davis, per me i primi peli da barba, usciva il pezzo dissacrante del mio nuovo idolo, che non impugnava racchette e non calciava palloni: Giorgio Gaber. Il Tennis. Il testo è farina del suo alter ego Luporini, un antropologo incazzato e lirico, nel DNA il disprezzo per il potere, la voce scritta di quasi tutto il Gaber che adoriamo. Giorgio, addomesticava.
“C’è chi gioca a tennis, e c’è chi gioca a calcio, certo, la vera cortina di ferro è lì, nei gusti. Le questioni ideologiche, roba da ridere, fra gusti uguali: i gusti sono la vera sostanza politica, e loro, hanno scelto il tennis. Belli puliti, tutti bianchi, impostati, il rovescio bello, la volée… Ma giocate al calcio, deficienti!”

Loro. Quindi anche noi. Eravamo fatti di pallone e feci fatica a continuare con il tennis. Intendiamoci: parliamo sempre di uno scarsone da cortile, appunto. Con il rovescio mai capito, che quando entrava mi chiedevo: come l’ho fatto? Boh. Il rovescio restava una scommessa continua. Il dritto, per chi aveva anche il ping pong nelle vene, veniva facile: sbagliato, portato di polso, ma in quella manciata di partite fatte in una campo vero la pallina andava spesso e decisa oltre la rete e dentro il rettangolo. Il servizio era una danza sul posto goffa, e anche quella, alla sperindio.
Ecco, godendo della sfida tra Sinner e Berrettini ho risentito in testa quel pezzo. Oggi teneramente goffo, come i miei servizi di allora e di sempre. L’estetica del calcio che il duo Gaber/Luporini voleva popolare, rude, combattiva, contrapposta alla futilità distante e fighetta del tennis è azzoppata. Un esempio nostrano e fresco, l’incontro tra i due ragazzi italiani: quasi quattro ore di sfida sanguigna, fraterna e feroce, uno scontro di intelligenze e potenza, senza esclusione di colpi, come si dice in retorica. Un grande incontro di pugilato, tolti gli ematomi. “Così si gioca in Paradiso!” esclamò Rino Tommasi, dopo uno scambio tra i due giganti amici Federer e Nadal nella finale di Wimbledon del 2007. La sparo così anch’io, sull’onda dell’entusiasmo, anche perché, come aggiunse Rino al socio guardone Gianni Clerici che lo prendeva per i fondelli (che libidine, quei due!) “Non ci sono mai stato e penso che non ci andrò!”. A questa sfida, va aggiunto il Fognini che a 37 anni si mangia il numero otto del mondo, dando spettacolo d’arte varia.

All’opposto l’Italietta del calcio. L’abbiamo vista tutti, la mediocrità che abbiamo coltivato, in quello sport che dovrebbe nascere in strada e far fiorire il talento libero e condiviso. Uno sport di sinistra, lo pensavano il Luporini e il suo tempo. Quella classe operaia, che oggi possiamo definire la sottosalariata, e che aveva ai tempi un senso fisico, riconoscibile, oggi è un magma indistinto e rancoroso. E pare che non riesca a partorire fatica ed eccellenza. Mentre nello sport borghese (se non sei di famiglia che ha un po’ di grano non ti metti colpire palline gialle dalla mattina alla sera in un club o in una scuola d’élite) siamo alla grandezza. Il paradosso italico è compiuto. Il calcio, sport popolare e sporco, è impotente e modaiolo. Il tennis, individualista e ricco, è guerriero e vincente.
Il dribbling resta un sogno. La volèe chiude il punto.

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