Tennis
Gli 80 anni di una femminista con la racchetta
Domani, il 22 novembre, Billie Jean King arriva alla bella età di 80 anni. Sempre in forma e pimpante, almeno a giudicare dall’assiduità con cui continua a frequentare il circuito tennistico, che proprio quest’anno l’ha celebrata per il suo insostituibile contributo alla nascita del professionismo femminile e alla parificazione dei compensi fra uomini e donne che per la prima volta fu raggiunta agli US Open del 1973.
Tuttavia, oltre alle conquiste concrete e all’impegno per avanzamenti materiali, King è passata alla storia per una vittoria più simbolica che reale, anch’essa ampiamente commemorata: il 20 settembre 1973, Billie Jean King sfidò e batté l’ex tennista Bobby Riggs in quella che è ricordata come la “battaglia dei sessi”. Cosa trasformò quanto poteva sembrare una ridicola buffonata in una precisa e deliberata affermazione politica?
La risposta è la stessa che spiega la mutazione di una “mera” campionessa di tennis in una riconosciuta icona dell’uguaglianza sessuale, inserita dalla rivista Life nell’elenco delle 100 personalità più influenti del Novecento e insignita della “Medaglia delle libertà” da Barack Obama: il contesto. L’indole rivoluzionaria, la volontà di porsi come esempio e guida e, ovviamente, il ragguardevole talento tennistico, che le permise di accumulare in carriera ben 39 titoli dello Slam, di cui 12 in singolare, non sarebbero stati sufficienti se King si fosse mossa in una cornice storica diversa.
Gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso furono il palcoscenico ideale per chi intendeva spogliare la racchetta del suo respingente e decrepito fascino vittoriano, trasformare un hobby per aristocratici in uno sport di massa e soprattutto servirsi della ribalta sportiva per parlare a milioni di donne oppresse ed emarginate.
Nel 1963, non ancora ventenne e col nome da ragazza, Billie Jean Moffitt disputò la prima finale a Wimbledon, che cedette all’arci-rivale Margaret Court. Solo qualche mese prima, negli Stati Uniti, Betty Friedan aveva pubblicato “La mistica della femminilità”, un saggio che metteva nero su bianco il “problema senza nome”, lo stato di prostrazione in cui si erano adagiate schiere di casalinghe, che si sentivano vuote, incomplete, invisibili. Il testo di Friedan portò a compimento un lungo processo generativo e al contempo fu il momento epifanico che spinse moltitudini di donne sulla via dell’impegno politico e sociale: le donne svolsero un ruolo centrale nei movimenti che, non solo in America, misero in discussione l’intera società, dai valori etici alle pratiche sociali, dalla morale sessuale ai rapporti fra le razze, dalle convenzioni linguistiche alle relazioni economiche.
In luogo di Miss (signorina) e Mrs. (signora), l’attivista Sheila Michaels cominciò a diffondere il termine Ms., che definisce la donna come individuo e non come appendice di un maschio; nel 1966, camuffata da uomo, Bobbi Gibb corse clandestinamente la maratona di Boston, all’epoca vietata alle ragazze come tutte le gare di fondo; alla kermesse di Miss America del 1968, le femministe gettarono ai rifiuti reggiseni, ciglia finte e pentole, non prima di aver incoronato reginetta di bellezza una pecora alla catena. Friedan tornò alla ribalta per fondare la National Organization for Women, che sporse migliaia di querele per discriminazione sessuale; nel 1967, il presidente Lyndon Johnson promulgò il decreto che bandì la disparità di trattamento fondata sul sesso negli impieghi governativi.
Nel frattempo, la tennista era salita al vertice del ranking mondiale e aveva sperimentato sulla sua pelle che non le bastava per meritarsi una borsa di studio al college. Da lì prese il via il suo impegno per “livellare il campo di gioco”: le donne erano pesantemente discriminate anche nello sport e dal momento in cui il tennis fu aperto al professionismo i tornei pagavano alle ragazze premi decisamente inferiori a quegli degli uomini.
Billie Jean King divenne una figura di enorme rilievo e la personale eroina di Charles Schulz, il geniale creatore dei Peanuts, che prese a citarla nel fumetto. Schulz aveva sempre usato lo sport per divulgare la propria idea di parità: nelle strisce, tutti e tutte giocano, saltano e corrono, dietro una palla o impugnando una racchetta, e lo fanno sempre insieme, maschi e femmine indifferentemente, fin dai tempi in cui un’atleta donna era poco meno di una contraddizione in termini. Alla metà degli anni ‘60, Schulz alzò l’asticella e introdusse Piperita Patty, l’autentica dominatrice degli sport; poi nel 1971 aggiunse Marcie e l’omaggio a Billie Jean King si completò: la prima, così determinata, così insofferente alle consuetudini, così fisicamente ed emotivamente esuberante, replicava atleticamente e psicologicamente la campionessa; la seconda ne era una copia sputata, con lo stesso caschetto bruno, gli stessi occhiali demodé e due “gambette”, va da sé, à la Billie Jean King.
Una tale offensiva multidimensionale non poteva non generare resistenze. Di fronte a King, mentre prendeva corpo un circuito tennistico femminile e un sindacato di giocatrici professioniste, antesignano dell’attuale Women Tennis Association, si parò il misogino Bobby Riggs. Noto per aver sbancato Wimbledon nel 1939, quando si era aggiudicato i titoli del singolo, del doppio e del misto, Riggs sbarcava il lunario sfidando chiunque fosse disposto a giocarsi una somma in denaro. Se l’avversario predestinato era reputato troppo debole, Riggs architettava qualche forma di handicap che ristabilisse l’indispensabile equilibrio. Per questo, aveva a volte giocato con un cane al guinzaglio, legato per una caviglia alle zampe di un elefante o brandendo un ombrello. Nel 1973 fiutò l’aria e si persuase che un match fra i sessi avrebbe arricchito il suo conto in banca: «Nessuna donna può battere un uomo nel pieno delle sue facoltà mentali. Non sono soltanto interessato alla gloria del mio sesso, voglio anche far arretrare il movimento emancipazionista femminile di vent’anni».
In primis, lanciò il guanto di sfida a Margaret Court, che si era da poco intestata il Grande Slam (la vittoria nello stesso anno solare dei quattro major), e che però non dette molto peso all’incontro, cui accondiscese principalmente per il gruzzolo promessole. Il 13 maggio 1973, Riggs maramaldeggiò e la numero uno delle donne fu sistemata con un rapido 6-2, 6-1, che passò alla storia come il “Massacro del giorno della mamma”.
Per Billie Jean King era evidente quello che Margaret Court non riusciva ad afferrare. Incrociare la racchetta con Riggs valeva assai di più di una partita di tennis, in palio c’era la credibilità delle femministe e più in generale l’accettazione delle donne come legittime atlete e aspiranti tali. Da un anno era in vigore il Titolo IX dell’Emendamento sull’Educazione, uno stringato codicillo largamente sottovalutato dagli stessi legislatori, il quale statuiva: “Nessuno negli Stati Uniti deve, sulla base del sesso, essere escluso dalla partecipazione, o vedersi negati i benefici, o essere soggetto a discriminazione nei programmi educativi o nelle attività che ricevono l’assistenza di finanziamenti federali”. King aveva contribuito al passaggio della legge, riportando al Congresso la sua testimonianza personale e denunciando l’assenza di pari opportunità nell’accesso ai programmi di educazione fisica nel sistema americano dell’istruzione. Nel 1972, solo una ragazza su ventisette giocava nelle squadre scolastiche o universitarie e le donne si spartivano appena il due per cento dei fondi destinati alla promozione delle attività sportive nelle scuole. La rituale offerta atletica per le studentesse era un posto nel gruppo delle cheer-leader o nella classe di danza, mentre quelle che superavano la ghettizzazione si acconciavano ad allenarsi all’alba o a notte fonda quando i colleghi maschi lasciavano liberi gli impianti.
King si allenò scrupolosamente, consapevole che una sua sconfitta avrebbe forse smantellato le conquiste che il tennis femminile si era guadagnato e sicuramente danneggiato l’autostima di milioni di donne. La cassa di risonanza intorno all’evento, alimentata dalle pagliacciate e dai commenti sessisti di Riggs, catalizzò l’attenzione non solo dei crescenti appassionati di tennis, ma quella dell’intero paese, che trovò un diversivo allo scandalo Watergate, le intercettazioni illegali ai danni del quartier generale del Partito democratico a Washington, che in capo a un anno sarebbero costate la presidenza a Richard Nixon.
Il 20 settembre 1973, trentamila persone affollarono l’Astrodome di Houston. Davanti al teleschermo si sedettero cinquanta milioni di americani e trentasei paesi trasmisero l’evento via satellite. Bobby Riggs irruppe nell’arena su un risciò trainato da due coppie di pin-up; Billie Jean King apparve su una lettiga come una novella Cleopatra, trasportata da un quartetto di forzuti a torso nudo.
L’inizio dal sapore circense si rivelò la parte più equilibrata dell’intera vicenda. King accantonò il proprio stile arrembante e allungò gli scambi per fiaccare la resistenza dell’attempato avversario, che in breve fu esausto e annichilito con un eloquente 6-4, 6-3, 6-3. Il valore simbolico della vittoria fu ben riassunto dalla biografa Susan Ware: «Ciò che King dimostrò quella sera, in una coraggiosa esibizione di prestanza fisica e nervi d’acciaio, è che le donne non sono fragili e deboli. Le donne possono affrontare le pressioni e superarle, anche in diretta televisiva nazionale».
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