Tennis
Billie Jean King e la parità dei premi nel tennis professionistico
Alla partenza dell’edizione più ricca degli US Open di tennis, che quest’anno liquideranno un montepremi complessivo di 65 milioni di dollari, è utile ricordare che cinquant’anni fa, il torneo newyorkese fu il primo major della storia a pagare premi uguali alle donne e agli uomini. Si trattò di un risultato gigantesco per lo sport femminile, che giunse non a caso in un periodo nel quale milioni di donne stavano lottando per l’affermazione dei propri diritti.
Nella scia dei movimenti anti-autoritari e giovanili degli anni ‘60 del secolo scorso, l’attivismo femminista cercò e percorse nuove strade. Il femminismo della cosiddetta “seconda ondata”, sorto negli Stati Uniti e poi dilagato in tutto l’Occidente, si tradusse in importanti conquiste nel lavoro, nella famiglia, nella società e soprattutto nella maternità. Nonostante gli enormi progressi della legislazione e del senso comune, permaneva però – come oggi del resto – un considerevole scarto in termini di salari fra maschi e femmine. In America il tradizionale gap salariale fu il più ampio mai registrato proprio nel 1973: le donne con un impiego a tempo pieno ottenevano appena il 56,6% di quello che guadagnavano gli uomini. Nel tennis, forse lo sport giocato dalle donne che riscuoteva il maggior successo di pubblico, la situazione non era diversa.
Nel 1972, a New York aveva trionfato il rumeno Ilie Nastase, che aveva intascato 25.000 dollari, mentre fra le ragazze ad alzare il trofeo era stata Billie Jean King, che però nella coppa aveva trovato un assegno di soli 10.000 dollari. Per quanto il clima politico e sociale dell’epoca fosse propizio per un avanzamento storico, niente sarebbe stato raggiunto nel tennis (e nello sport in genere) senza il contributo decisivo di King.
Billie Jean era una rivoluzionaria naturale. Nata Moffitt il 22 novembre 1943, a Long Beach, in California, era destinata a chiamarsi Michelle Louise, ma la concomitante partenza del padre per la guerra, indusse la madre Betty a battezzare la bimba come l’assente genitore. Billie Jean crebbe all’aria aperta, mescolandosi a orde di coetanei, soprattutto maschi, per giocare a softball e football, oppure lanciando al padre una palla da baseball. Intorno ai dieci anni, le fu poco cortesemente imposto di lasciare la squadra di pallacanestro della scuola: era così forte e prestante che con lei sul parquet le partite perdevano ogni barlume di incertezza. I genitori posero la figlia di fronte a un bivio: o sceglieva uno sport più elegante e raffinato o avrebbe dovuto lasciar perdere tutto. Alla metà degli anni ‘50, una ragazzina fisicamente esuberante era considerata un maschiaccio senza il minimo attributo femminile, mentre il tennis, con la sua aura di disciplina aristocratica e gentilizia, si adattava perfettamente agli imperativi di decoro e di grazia che le ragazze dovevano rispettare in ogni circostanza.
Non appena varcò i cancelli del circolo cui fu iscritta, non senza sacrificio, Billie Jean si avvide che all’aura corrispondeva la realtà: dov’erano i suoi coetanei e quelli con cui era cresciuta? Dov’erano i neri, gli immigrati, i figli e le figlie delle famiglie che sgobbavano duramente per arrivare alla fine del mese? Ovunque gettasse lo sguardo, era tutto un turbinare di gonne pieghettate, mutande di pizzo e colletti inamidati: il tennis era classista, altezzoso e inavvicinabile.
Non senza l’intralcio di qualche umiliazione e rimprovero, per le divise non proprio immacolate che indossava e per il temperamento irascibile che sfoggiava in campo, la giovane si fece strada rapidamente, fino a venire inclusa nella squadra che girava il paese in lunghe trasferte, pagate dal secondo lavoro che il padre si era trovato. Nel 1961, vinse a Wimbledon il titolo del doppio e ottenne un posto all’università di Los Angeles, finanziandosi con le lezioni di tennis e con il lavoro di addetta alla palestra. Cominciò a fare coppia fissa con Larry King, un tennista assai meno forte di lei che frequentava il college grazie a una borsa di studio e che sposò dopo la laurea.
Dopo le vittorie nel singolare di Wimbledon e New York, nel 1966 salì al vertice della classifica mondiale. Da lì, iniziò la battaglia per cambiare il tennis. Il primo bersaglio fu il rigido dilettantismo strenuamente difeso dalla federazione internazionale. Considerati i compensi e i premi milionari che arricchiscono i migliori giocatori di oggi, riesce difficile credere che fino a sessant’anni fa una tennista come King poteva essere squalificata per gli otto dollari l’ora che incassava insegnando il gioco ai ragazzini o che tutto quello che ricevette per la sua seconda corona di Wimbledon fu un rimborso spese di quarantacinque sterline. Solo pochi allora guadagnavano con il tennis, gravitando in un’orbita professionistica che non includeva gli Slam, né gli altri più prestigiosi tornei del circuito. Succedeva però che diversi cosiddetti dilettanti guadagnassero di più dei conclamati professionisti, a causa dei lauti pagamenti che gli organizzatori versavano sottobanco per garantirsene la presenza ai loro tornei. Sul finire degli anni Sessanta, questa farsa ebbe termine. Nel 1968, subito seguito a ruota dagli altri tre, Wimbledon fu il primo major a varare l’edizione open, aperta cioè a entrambe le categorie di giocatori.
Con il professionismo arrivarono le televisioni, gli stadi si riempirono e i giocatori sperimentarono le prime forme di divismo. L’incremento di popolarità e di visibilità mediatica andò a braccetto con una crescente disparità dei montepremi: gli uomini potevano aggiudicarsi compensi dieci, undici, anche dodici volte maggiori di quelli delle donne, cui spesso era anche negata la possibilità di gareggiare. I maschi risolsero di costituirsi in un’organizzazione professionistica, ma omisero deliberatamente di coinvolgere le giocatrici.
La lotta per la parità dei premi si inserì nella più generale sollevazione di milioni di donne a tutte le latitudini. L’inveterata visione della famiglia quale luogo deputato alla “riproduzione biologica”, in cui i due sessi ricoprivano ruoli rigidamente separati e distinti e uno dei due – “il secondo”, come l’aveva battezzato la pensatrice francese Simone de Beauvoir – era chiaramente e indiscutibilmente subordinato all’altro, fu messa per la prima volta in discussione. La maturazione di processi culturali, demografici e tecnologici di lunga lena provocarono la discesa dei tassi di natalità, l’aumento delle unioni consensuali, dei figli nati fuori dal matrimonio e dei divorzi – legalizzati in moltissimi paesi –, l’abbassamento della numerosità dei nuclei domestici e la diffusione delle famiglie monoparentali.
Billie Jean King si mise alla testa di altre coraggiose colleghe e radicalizzò la protesta. Di fronte al risoluto rifiuto degli organizzatori di equilibrare i compensi, nove giocatrici firmarono un contratto simbolico di un dollaro per giocare in tornei a loro riservati. Gladys Heldman, editrice della rivista “World Tennis”, sponsorizzò il primo, che si tenne a Houston nel settembre 1970. Heldman ottenne l’appoggio finanziario della Philip Morris, la multinazionale del tabacco che in quel periodo aveva iniziato a commercializzare le Virginia Slims, un tipo di sigaretta lunga e sottile specificatamente pensata per le donne. Fu l’atto di nascita del Virginia Slims Tour, il circuito professionistico femminile che tre anni dopo divenne l’attuale Women Tennis Association (WTA), mentre le nove dissidenti furono etichettate come Women’s Lob [1].
Galvanizzata dai primi successi del Virginia Slims Tour, nel 1973, King fece l’en-plein sui prati di Wimbledon, conquistando il singolo, il doppio e il misto, il che le valse un totale di 3.550 sterline. A Jan Kodes fu sufficiente aggiudicarsi la finale maschile per totalizzarne 5.000.
King pretese allora udienza dal direttore degli US Open, cui chiese a gran voce la parificazione dei compensi al torneo di Forrest Hills. Suffragò la risoluta richiesta con i risultati di sondaggi che svelavano l’accresciuto interesse dei tifosi per il tennis femminile e portò in dote un elenco di sponsor che si erano dichiarati disponibili a pagare la differenza necessaria a equilibrare i compensi fra giocatori e giocatrici: il muro fu infranto e il 20 luglio 1973 il New York Times, riecheggiando il celebre incipit della Dichiarazione d’Indipendenza, uscì con un articolo titolato “Il tennis decide che anche tutte le donne sono create uguali”. Per capire la portata di quella decisione, è sufficiente considerare che gli Australian Open aspettarono il 2001 per pagare le stesse borse a donne e uomini, mentre il Roland Garros equiparò gli importi solo nel 2006 e Wimbledon non prima dell’anno successivo.
Anche se il movimento femminista stentò a comprendere il contributo che le atlete e le sportive potevano fornire alla causa, Billie Jean King non cessò di impegnarsi per i diritti delle donne, delle lesbiche e delle minoranze sessuali in genere. Nel 1981, dopo che l’ex compagna Marilyn Barnett l’aveva citata per il pagamento degli alimenti, ammise pubblicamente di essere omosessuale e divorziò poi da Larry pur continuando a portarne il nome. Nel 1990, la rivista “Life” inserì Billie Jean King fra i cento americani più importanti del XX secolo, unica atleta donna della lista e una dei soli quattro sportivi inclusi nell’elenco. Nel 2009, per il suo impegno decennale contro le discriminazioni, fu insignita dal presidente Barack Obama della Medaglia della libertà, la massima onorificenza civile degli Stati Uniti d’America.
[1] L’intento blandamente canzonatorio dipendeva dall’assonanza fra lob (pallonetto) e lib, l’abbreviazione contenuta in “Women’s lib”, il movimento di liberazione femminile.
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