Rugby
Il rugby è un’allegoria della guerra, ce lo hanno ricordato gallesi e inglesi
Quanto accaduto lo scorso sabato sera a Twickenham, nella partita del Mondiale di rugby tra Inghilterra e Galles, è ormai raccolto negli annali di questo sport: perché si affrontavano due nazionali dalla rivalità accesa, perché entrambe sono nel così detto girone della morte al quale partecipa anche l’Australia e alla fine solo due potranno accedere alla fase finale del torneo, perché ogni passo falso può quindi costare caro ed ora, sul baratro del burrone, ci sono gli inglesi padroni di casa.
E’ stato un match emozionante, ruvido, dai grandi scontri e drammi che si sono susseguiti: i gallesi già segnati dagli infortuni alla vigilia della World Cup, hanno dovuto aggiungere almeno altri tre nomi alla lista appesa in infermeria, mentre quando ormai scorrevano le lancette dell’ultimo quarto di partita i volti dei giocatori dell’Inghilterra cominciavano ad indossare i tratti del nervosismo, della paura, dello sconforto e della solitudine che attanaglia gli sconfitti.
Se questa fosse l’epoca dell’Orlando furioso dell’Ariosto o dell’Adelchi del Manzoni, quegli attimi sarebbero conservati in un poema: “Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, / dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / dai solchi bagnati di servo sudor, / un volgo disperso repente si desta; / intende l’orecchio, solleva la testa / percosso da novo crescente romor“.
Il rugby resta la migliore versione allegorica della guerra, facendone ammettere l’esistenza con i suoi scontri fisici e i suoi movimenti tattici alla retorica ripulita occidentale, in cui i conflitti sembrano sempre lontani finché non si espandono fino a raggiungere i nostri confini.
Tra i cori della tradizione gallese e che risuonano ancora oggi negli stadi, “Men of Harlech” ricorda i sette anni d’assedio del castello di Harlech durante la Guerra delle due rose Stuart vs. Lancaster – e l’allenatore dell’Inghilterra fa Stuart di nome, Lancaster di cognome – e avvisa i nemici che “Welshmen never yield”, non si arrendono mai. Non sono in molti invece a sapere che il poema di William Blake “Jerusalem” (1804) nella tradizione inglese – inglese, non britannica – ha i crismi di un inno le cui note accompagnano la cerimonia che anticipa il calcio d’inizio nelle partite della nazionale di rugby a Twickenham e si conclude con questi versi cavallereschi:
I will not cease from Mental Fight,
nor shall my Sword sleep in my hand:
till we have built Jerusalem,
in England’s green and pleasant Land.
In giorni a noi più vicini, agli inglesi è già accaduto di essere stati ad un passo dal soccombere, con le truppe di Hitler che invadevano la Francia e l’esercito reale imbarcato su pescherecci e navi di ogni genere per venire tratto in salvo dalle spiagge di Dunkerque, prima che i bombardieri tedeschi iniziassero a bombardare a tappeto Londra e le altre città dell’isola. Sappiamo come andò a finire: “Mai nel campo degli umani conflitti tanti dovettero così tanto a così pochi” (Winston Churchill).
Durante la Prima battaglia della Somme, sul fronte francese nel 1916, alla 38^ divisione gallese fu affidato invece il compito di stanare dai boschi di Mametz le truppe nemiche in un’operazione voluta ostinatamente dai vertici militari britannici dopo una serie di fallimenti: la mattina del 10 luglio di quell’anno i gallesi tornarono all’attacco, il Welsh Regiment contava 676 uomini. Ne morirono più di quattrocento, ma i boschi furono conquistati.
Se pensate che il campo di rugby sia solo un terreno di gioco, sbagliate.
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