Rugby
Addio a Jonah Lomu, l’atleta arrivato dal futuro
La scomparsa di Jonah Lomu è roba che lascia il segno. La notizia nell’emisfero boreale è giunta in piena notte: già le notizie tristi non piacciono, se poi vengono comunicate con il buio fuori di casa diventano ancora più difficili da digerire e realizzare. Se si apprendono all’indomani, appena svegli, provocano una sensazione di smarrimento.
A ciò si aggiunge l’immaginario comune che ha accompagnato la figura di Jonah: un camion, una locomotiva, un armadio su due gambe, tanto grande quanto debole ai reni: un primo trapianto nel 2004, un secondo – è emerso nelle ultime ore – per il quale era in lista di attesa, ma la malattia ha avuto la meglio a soli quarant’anni, provocando un arresto cardiaco.
Avremmo voluto vederlo giocare di più, invece la sua carriera si è chiusa nel 2010 tra partite e sedute di dialisi che hanno inevitabilmente rallentato la sua attività agonistica: fino al 2003 in Nuova Zelanda con Wellington e Hurricanes, poi solo sporadiche apparizioni in Galles con i Cardiff Blues e il Marsiglia in Francia. Dove non riescono gli avversarsi, ci pensa la realtà, come a ricordarci che i supereroi non esistono.
Lomu è stato un Game changer, una specie di Terminator spedito dal futuro non per distruggere l’umanità, ma per farle conoscere come sarebbe stato il rugby da lì a qualche anno, nell’epoca del professionismo. Un’ala fisicamente imponente, rapida, la falcata di un puma, una forza della natura, il terminale ultimo di una marea nera che grazie anche alle sue scorribande è divenuto un marchio unico.
In Nuova Zelanda la maglia degli All Blacks non è assegnata per diritto acquisito, i giocatori devono conquistarsela, la concorrenza su un’isola ad alta densità di rugbisti è spietata e quindi indossarla diventa motivo per cui gonfiare il petto, allargare le spalle, conservando però l’umiltà da abbinare al carisma e alla leadership (la scaltrezza te la insegnano in allenamento, è parte integrante del bagaglio culturale).
Alla sua massa muscolare calzava a pennello la semplicità di chi si è sempre dimostrato disponibile a fermarsi per una foto ricordo, un autografo e un paio di battute nel suo peregrinare alle diverse latitudini del mondo ovale come ambasciatore del presente che lui aveva vissuto prima di tutti gli altri. Un impact player, un trequarti con le abilità e gli skills per muoversi indistintamente sul campo, quando il concetto di ala era abbinato all’idea che ricevesse l’ovale per esplorare lo spazio davanti a sé, piuttosto che andarsela a cercare.
Se oggi è usuale vedere un trequarti dalla postura di una terza linea, adoperata tra gli avanti, non lo era quando Lomu cominciò a far parlare di sé al Mondiale sudafricano del 1995, l’anno che ha sancito l’ingresso del rugby nell’era professionista: i neozelandesi persero in finale contro i padroni di casa, ma tra loro c’era un prototipo di atleta nuovo, un modello che ha fatto scuola sancendo il passaggio ad un’altra epoca, del materiale grezzo sul quale lavorare per aumentare le spettacolarità di uno sport che richiede un notevole sforzo mentale, oltre che fisico.
Nel 2007 fu insignito dell’Ordine al merito dalla Nuova Zelanda per il contributo al rugby. E all’umanità che gli gravita attorno, aggiungiamo.
Jonah Lomu era nato il 12 maggio 1975 ad Auckland (NZ). Lascia la moglie Nadene e due figli di 6 e 5 anni, Brayley e Dhyreille. E’ morto il 18 novembre 2015, sempre ad Auckland. Gli auguriamo di giocare tante partite in paradiso e gli chiediamo di essere lieve mentre calpesta i prati lassù, palla in mano.
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