Olimpiadi
Olga Korbut e l’ascesa delle ginnaste-bambine
Il 31 agosto 1972 segna una data spartiacque nella storia della ginnastica femminile. Quel giorno, alle Olimpiadi di Monaco, la sovietica Olga Korbut vinse l’oro alla trave e nel corpo libero, oltre a un argento nelle parallele asimmetriche. Dalla sera alla mattina, divenne una star planetaria, sovvertendo i paradigmi atletici, fisici e tecnici della ginnastica e facendone al contempo uno degli sport olimpici più popolari: la ginnastica poteva esser nata come una disciplina per donne adulte, ma furono le evoluzioni esplosive di una tascabile adolescente bielorussa a farne un blockbuster a cinque cerchi.
Gli sport moderni videro la luce, nella seconda metà del XIX secolo, grazie alla principale iniziativa degli inglesi, i quali – per un complesso di ragioni storiche, sociali e culturali – imposero una versione rivaleggiata delle pratiche atletiche, del tutto in linea con l’antica concezione classica dell’agonismo greco. Nello stesso torno di tempo, tuttavia, la ripresa d’importanza della dimensione corporea dell’esistenza, aveva prodotto in Europa la diffusione di teorie e pratiche ginniche come il Turnen (sorto in Germania) e il sistema Ling (d’impianto svedese). Anch’esse miravano a trasmettere valori morali e patriottici, ma erano non competitive, evidenziavano lo spirito di gruppo anziché lo sforzo individuale e valorizzavano il gesto e la postura invece del risultato da conseguire [1]. La ginnastica discende da questi antenati e per buona parte della sua storia, almeno nella versione riservata alla donne, ha valorizzato la grazia, la bellezza e la leggiadria. Poi, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, l’esaurimento di fatto delle opzioni coreografiche mutuate dalla danza lasciarono spazio a uno sviluppo di tipo acrobatico e a un conseguente drastico cambiamento nella forma dei corpi più idonei a esprimere la nuova tendenza.
Quando Korbut sbaragliò la concorrenza ai Giochi di Monaco, aveva solo 17 anni. Soprannominata il “passerrotto di Minsk”, era uno scricciolo di pura energia: pesava 38 chili su 150 cm di altezza. Ci si aspettava che avrebbe potuto vincere delle medaglie, dato che la squadra sovietica monopolizzava i podi ormai da 20 anni, ma era ai più sconosciuta. Korbut aveva cominciato a nove anni e presto aveva guadagnato un posto in una delle migliori scuole del suo paese. Segnalata al guru degli allenatori russi, a 12 anni divenne la pupilla di Renald Knysh, che in quella ragazzina pigra e incostante, dotata di una spina dorsale eccezionalmente flessibile, intravide la spavalderia e il talento in grado di mutarla in un’autentica fuoriclasse.
Knysh fu spietatamente esigente, imponendo alla minuta allieva un regime d’addestramento draconiano. In capo a un paio di anni, partecipò ai campionati nazionali sovietici, in deroga all’età minima richiesta per gareggiare. Impressionò per l’audacia degli esercizi, ma i giudici la penalizzarono proprio per il suo approccio radicale. In uno sport in cui il punteggio è interamente soggettivo, gli esiti sono profondamente influenzati dal modo in cui le routine sono presentate e dai valori prevalenti al momento della prestazione: quando Korbut apparve alla ribalta nazionale, le austere giurie non erano pronte per la sua audacia da trapezista, che rompeva con la tradizione delle ginnaste-ballerine che non avrebbero sfigurato al Teatro Bol’šoj di Mosca o alla Scala di Milano.
Nella sua prima apparizione olimpica, Korbut trionfò alla trave, esibendosi in un inedito salto mortale all’indietro senza l’ausilio delle mani: su una base di soli 10 cm di appoggio, dove le atlete si erano fino ad allora limitate a mostrare armonia ed equilibrio, la bielorussa introdusse capriole di straordinaria temerarietà. Da quel momento in avanti, le televisioni accorsero e il pubblico fu rapito dall’emozionante tensione fra stordente bellezza e rischio perenne di disastro, dall’affascinante contrasto fra l’intrepida coreografia dei volteggi e l’apparente fragilità delle minuscole protagoniste [3].
Korbut si prese l’oro anche nel corpo libero, ma fu l’argento alle parallele asimmetriche a regalarle l’immortalità sportiva. Nei preliminari, commise diversi errori e delusa per la misera prestazione scoppiò pubblicamente in lacrime, catturando la simpatie della folla, abituata a pensare alle rappresentanti dell’Urss come ad automi insensibili a qualsivoglia emozione. Nella finale, si produsse nel suo celeberrimo “Korbut flip”, un impavido movimento concluso con la ripresa all’indietro della sbarra superiore. Gli spalti esplosero in un’ovazione, cui seguì un’insistita protesta non appena i giudici emisero un verdetto sotto la perfezione. Le urla, i fischi e gli ululati ritardarono la prosecuzione della gara, ma la giuria rifiutò di alzare il punteggio di 9.8: qualche leggera imperfezione nell’esecuzione poteva forse giustificare l’eccessiva severità del punteggio, che mancò però di registrare la portata complessiva ed epocale dell’esercizio, il quale era destinato a cambiare per sempre il paradigma della ginnastica femminile.
Le campionesse che avevano dominato la scena fino a tutti gli anni ’60 osavano esercizi con bassi coefficienti di difficoltà. Larisa Latynina, che rimane la ginnasta più medagliata della storia, ammassò successi e riconoscimenti con routine elementari, che poté adempiere mentre era incinta di quattro mesi e che solo pochi anni dopo sarebbero state disinvoltamente eseguite da bambine di cinque anni. Vinse a Melbourne nel 1956 e ancora a Tokyo nel 1964, poco prima di compiere trent’anni, soglia che la sua più accreditata rivale, l’ungherese Agnes Keleti, aveva già oltrepassato quando si accaparrò ben cinque ori olimpici. Korbut pose fine a entrambe le tendenze: le ginnaste vincenti sarebbero state ragazzine di taglia ridottissima, capaci di acrobazie mozzafiato ma destinate a dare il meglio di sé prima di diventare donne.
La spiegazione prevalente sulle cause dell’infantilizzazione delle ginnaste attribuisce la responsabilità ai paesi del blocco comunista. Inevitabilmente e per tenere il passo, le altre nazioni si sarebbero adeguate. Come si legge invece nella recente ricerca di Georgia Cervin, ex ginnasta e storica dello sport neozelandese [4], la realtà è un po’ più complessa. Korbut fu la prima a portare sul proscenio olimpico le acerbe teen-ager e quattro anni dopo la quattordicenne rumena Nadia Comaneci, conquistando il primo “10” della storia alle Olimpiadi di Montreal, rinforzò definitivamente la tendenza, ma già nel 1971 la Federazione Internazionale della Ginnastica (FIG) aveva sentito il bisogno di fissare a 14 anni l’età minima per gareggiare: si citavano rischi per la salute dovuti alla precocissima specializzazione e si stigmatizzava il ricorso a bambine che dovevano atteggiarsi a donne mature. Nel 1968, la cecoslovacca Věra Čáslavská aveva in effetti vinto i Giochi di Città del Messico a 26 anni, ma l’orientamento stava già spostandosi in favore delle atlete più giovani e delle acrobazie più ardite, come dimostravano le due quindicenni che nelle stesse Olimpiadi avevano fatto parte della squadra sovietica. Tuttavia, secondo Cervin, i veri iniziatori dell’era delle ginnaste-bambine furono i paesi occidentali, mentre i sovietici furono i più tenaci nel resistere ai nuovi standard.
Negli Stati Uniti, il secondo dopoguerra aveva visto il ritorno a relazioni di genere alquanto tradizionali. Le donne avevano in massa sostenuto lo sforzo bellico americano sostituendo nelle fabbriche padri, fratelli e mariti, ma la fine delle ostilità aveva ristabilito la loro subalternità in un mondo rigidamente maschilista. Nello sport, le ragazze non erano incoraggiate ad allenare duramente qualità come velocità, potenza e aggressività, ritenute da tempo immemore prerogative esclusivamente virili. Dopo tutto, lo sport distoglieva le donne da ciò che era considerato il loro compito precipuo: partorire ed essere madri.
Le norme di genere erano diverse in Unione Sovietica, dove le donne avevano respinto i nazisti durante il conflitto mondiale [5] ed erano pienamente supportate dallo Stato nel loro desiderio di praticare attività sportiva. Nel 1952, in piena Guerra fredda, Mosca decise finalmente di entrare nell’agone olimpico e i periodici incontri sportivi con l’altra super-potenza divennero un modo per misurare la forza dei rispettivi sistemi politici, sociali ed economici. Le donne potevano pertanto fornire un contributo cruciale alla supremazia sportiva e quando i due nemici ideologici convennero di misurarsi in meeting bilaterali di atletica leggera a partire dalla fine degli anni ’50, uno dei nodi più intricati da sciogliere fu l’inclusione o meno delle donne nel programma delle riunioni, poiché gli Stati Uniti erano consci di essere inferiori ai russi nei tassi di partecipazione femminile alle attività atletiche [6]. Se gli occidentali volevano tenere testa al blocco orientale nella corsa alle medaglie dovevano trovare un modo per alimentare lo sport femminile, specialmente in quelle discipline – come la ginnastica – in cui il vantaggio sovietico era abissale. Per gli americani la risposta fu il ricorso alle ragazzine, che non avevano vincoli professionali o familiari, e che soprattutto erano accudite, nutrite e finanziate dai genitori e dunque non implicavano la messa in discussione di un sistema rigidamente imperniato sul dilettantismo, che discriminava le donne nella distribuzione delle borse di studio sportive.
Alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, le ginnaste statunitensi e sovietiche avevano un’età media di 28 anni, che per le americane precipitò sotto i 20 già nell’edizione successiva di Melbourne, mentre per le sovietiche restò intorno a 25 anni fino alla fine del decennio successivo. Nel 1976, l’anno dell’affermazione di Comaneci, le americane si attestavano su un’età di 17,5 anni che per le russe era di due anni maggiore [7].
Nonostante l’introduzione della norma sull’età minima, alla quale peraltro i singoli paesi non erano tenuti a uniformarsi, la FIG pareva osteggiare più l’acrobatizzazione che l’infantilizzazione. La resistenza intendeva arginare la mascolinizzazione delle routine, che portava più elevati tassi di dinamismo, potenza e azzardo che mal si accordavano con l’ideale di grazia e bellezza che era associato alla ginnastica derivante dalla danza, di cui proprio le russe erano le esponenti più qualificate. Ma le opinioni erano discordanti, soprattutto alla luce del crescente apprezzamento del pubblico: nuovi codici per l’attribuzione dei punteggi incoraggiarono le acrobazie a discapito dell’armonia ballettistica e le innovazioni tecnologiche (copertura della trave e del trampolino con morbidi rivestimenti, incremento della resa elastica delle pedane di gara, ecc.) si mossero nella stessa direzione. In breve, si pose il problema di proteggere le atlete dalle loro stesse azzardate evoluzioni, ma ad ogni limitazione precauzionale (proprio il “Korbut flip” fu infine proibito per la sua pericolosità) seguivano volteggi e salti ancora più complessi, che alzavano i rischi per l’incolumità delle ginnaste: durante la preparazione per le Olimpiadi di Mosca del 1980, Elena Mukhina fu una delle campionesse vittime dell’esasperazione acrobatica, restando completamente paralizzata in seguito a una caduta nell’esecuzione del “salto Thomas”, poi anch’esso messo fuorilegge.
L’incidente di Mukhina fu anche la conseguenza dello stress e della fatica di allenamenti insopportabilmente estenuanti. Per padroneggiare esercizi progressivamente più articolati e rischiosi, erano necessarie ore e ore di palestra quotidiana, durante le quali le piccole (d’età e di taglia!) atlete erano del tutto in balia di tecnici dispotici, nel quadro di relazioni spesso patologiche in cui si mescolavano soggezione psicologica e adorazione tecnica, che aprivano la strada a vere e proprie violenze che le ragazzine a stento riconoscevano e meno che mai denunciavano. Proprio Korbut, oltre vent’anni dopo i presunti fatti, trovò il coraggio di accusare di abusi sessuali il proprio mentore Knysh (che ha sempre respinto ogni addebito), mentre è nota la vicenda del medico della nazionale statunitense di ginnastica, Larry Nassar, condannato all’ergastolo per decenni di molestie sessuali ai danni delle ginnaste, o dell’allenatore della squadra a stelle e strisce John Geddert, suicidatosi all’inizio dell’anno dopo esser stato raggiunto dalle medesime imputazioni.
Agli ultimi Giochi di Tokyo, abbiamo tutti letto del crollo nervoso dell’acclamatissima Simone Biles, più recente e famoso prodotto della metamorfosi innescata da Korbut. Incapace di reggere lo stress, l’ansia e la pressione di un sistema ultra-competitivo e di un’aura di infallibilità che le fu cucita addosso dopo i sensazionali exploit delle precedenti Olimpiadi, Biles ha rinunciato a quasi tutte le gare, racimolando alla fine un unico bronzo individuale alla trave e ponendo un grosso interrogativo sulla sostenibilità di un apparato che stritola le sue stesse migliori interpreti. A stretto giro, è venuto, d’altro canto, l’inaspettato argento nel corpo libero di Vanessa Ferrari, che ha ormai superato i trent’anni. Il successo dell’italiana prefigura un possibile riequilibrio anagrafico, il ritorno delle donne fatte, respinte per decenni dagli allenatori che le giudicavano penalizzate dalla fisiologia, dai seni, dai fianchi e da una mente matura inadatta a tollerare le angherie di tiranni in tuta e fischietto [8].
[1] Keys, B., Globalizing Sport. National Rivalry and International Community in the 1930s, Harvard University, 2006
[2] Cervin, G., Degrees of Difficulty: How Women’s Gymnastics Rose to Prominence and Fell from Grace, University of Illinois Press, 2021
[3] O’Rourke, M., Extreme Gymnastics Will Dominate the Rio Olympics, in “The Atlantic”, luglio-agosto 2016
[4] Cervin, G., Gymnasts are Not Merely Circus Phenomena: Influences on the Development of Women’s Artistic Gymnastics During the 1970s, in “The International Journal of the History of Sport”, vol. 32, 2015
[5] Aleksievic, S., La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale, Bompiani, 2018
[6] Maraniss, R., Roma 1960. Le Olimpiadi che cambiarono il mondo, Rizzoli, 2010
[7] Cervin, G., op. cit.
[8] Myers, D., Time For The End Of The Teen Gymnast, in “FiveThirtyEight”, consultato il 31.08.2021
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