Olimpiadi

Cinque cerchi di separazione

12 Gennaio 2022

L’anno passato il mondo dello sport è stato attraversato dalla protesta politica e sociale. Dal basket all’atletica leggera, dal tennis alla pallavolo, atleti e atlete hanno fatto sentire la loro voce in appoggio al Black Lives Matter. Con grande risonanza e polemica mediatica, durante il Campionato europeo, anche i calciatori si sono pronunciati, con collaterali prese di posizione a favore del movimento LGBT, innescate dai provvedimenti omofobi del governo ungherese di Viktor Orbán e rinfocolate in Italia dalle polemiche intorno al disegno di legge Zan, che poi sarebbe stato bocciato dal parlamento.

Ma quali sarebbero state le azioni e le reazioni se i campioni maschi fossero stati sollecitati a battersi per i diritti delle donne? Gli uomini, che in maggioranza gestiscono anche lo sport e beneficiano di indubbi vantaggi, sarebbero pronti a schierarsi per una redistribuzione dei compensi a favore delle colleghe, o per favorire una maggiore visibilità delle gare delle ragazze, o per porre un argine all’eccessiva sessualizzazione delle competizioni femminili?

Mi sono posto queste domande dopo la lettura dell’ultima fatica di Federico Greco, l’agile ma denso Cinque cerchi di separazione. Storie di barriere di genere infrante nello sport (paginauno, 2021), nel quale si comprende bene che lo sport – al contrario di quello che ci piacerebbe pensare – non è un’isola felice e che è stato e sarà ancora necessario un impegno strenuo per livellare finalmente il campo di gioco. Del resto, la storia plurimillenaria dello sport ha un’origine e una traiettoria fortemente segregate. Alle Olimpiadi classiche, le donne non potevano partecipare e nemmeno assistere, mentre ai Giochi moderni, riesumati nel 1896 dal barone francese Pierre de Coubertin in evidente chiave maschilista, le signore sono state ammesse con esasperante lentezza e al termine di estenuanti battaglie: soltanto nel 1991 il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha stabilito che le discipline olimpiche devono prevedere gare per entrambi i sessi e si è dovuta attendere l’edizione londinese del 2012 perché tale norma trovasse concreta applicazione.

L’analisi di Greco, membro della “Società Italiana di Storia dello Sport”, prende spunto dall’originaria ipocrisia dell’olimpismo, ecumenico nei principi e particolare nella pratica, tanto da frapporre ostacoli insormontabili alla partecipazione femminile e da replicare di fatto le discriminazioni di cui era (ed è) impregnata la società. Nella metafora del volume, proprio i cinque cerchi della bandiera olimpica possono essere considerati dei recinti al cui interno le donne sono state e sono in parte ancora costrette. Il primo è quello che le ha a lungo obbligate nel ruolo esclusivo di madri e mogli, col conseguente corollario – e secondo cerchio – della pericolosità e dell’inopportunità di dedicarsi ad attività fisiche che avrebbero messo a repentaglio la buona riuscita della primaria funzione generatrice. È questa la storia dei primordi dello sport, di Annie Cohen Kopchovsky che alla fine dell’Ottocento girò il pianeta pedalando o di Annette Kellermann, la “sirenetta australiana”, campionessa dell’acqua di oltre cento anni fa, ma anche di milioni di donne che anelavano correre, saltare o nuotare, e contro le quali si schieravano compatte legioni di benpensanti, di medici e di preti che glielo proibivano per infondati motivi sanitari e per inveterate ragioni di decoro.

Anche i successivi steccati si tengono l’un l’altro. Il terzo poggia sul pregiudizio e la condiscendenza con cui lo sport femminile, una volta diffusosi, è stato ed è ancora raccontato dai mezzi di comunicazione di massa, che tendono a svalorizzarlo rispetto a quello maschile, giudicato ipso facto il neutro e l’universale. Emblematico al riguardo fu il caso degli 800 femminili alle Olimpiadi del 1928, conclusi a tempo di record dalle partecipanti, che per la stanchezza si accasciarono al suolo dopo il traguardo e perciò riferiti dalle cronache dell’epoca come un ecatombe di corpi, cosa che indusse il CIO ad abolire la gara fino ai Giochi romani del 1960. Il quarto limite ne discende ed è rappresentato dagli enormi divari nei premi e dal ridotto riconoscimento legale del professionismo sportivo femminile, barriere contro le quali si batté in primis la tennista Billie Jean King, che negli anni ‘70 del secolo scorso – contro la mancata solidarietà e persino l’aperto ostracismo dei campioni del circuito maschile – ottenne la parità dei compensi nei tornei dello Slam.

L’ultimo muro che tiene le donne in una posizione di minorità sportiva, così come le costringe in un ruolo subalterno e gregario nella società nel suo complesso, è quello che le esclude – se non in percentuali trascurabili – dagli organi di governo dello sport mondiale. L’insufficiente presenza femminile negli enti direttivi è forse poco visibile alla platea di chi si dedica alla sport come passione e passatempo, ma è senz’altro il freno più efficace alla piena e paritaria espressività fisico-atletica delle donne.

Cosa sarà nel futuro è la domanda con cui Greco si congeda dal lettore del suo intenso e documentato excursus, il che ci riconduce alla premessa. Lo sport è ben radicato nella società attuale, ne replica gli aspetti positivi e quelli negativi, a volte facendo da apripista per cambiamenti nei due sensi, a volte ponendosi in coda ai mutamenti di segno progressista o conservatore. Tuttavia, la capacità degli idoli degli stadi di imprimersi indelebilmente nell’immaginario collettivo li chiama a un’assunzione di responsabilità. Che padri, fratelli, mariti e amanti maltrattino e uccidano figlie, sorelle, mogli e fidanzate, o che eserciti di donne siano impediti dagli ubiqui “soffitti di vetro”, o che milioni di ragazze non possano guidare un’automobile, non è meno odioso che la profilazione razziale informi l’agire delle forze di polizia o che i neri siano considerati persone di seconda categoria.

Per quanto episodi come il licenziamento della pallavolista Lara Lugli a gravidanza in corso o il crack nervoso di Naomi Osaka in occasione dell’ultimo Roland Garros abbiano fornito occasioni agli sportivi per appoggiare le rivendicazioni delle loro colleghe o per ripensare i meccanismi dello sport in termini meno esasperati, non sono state molte le voci maschili che si sono levate in segno di solidarietà. Se la parità di genere negli anni a venire colonizzerà compiutamente la cittadella dello sport, dipenderà anche dalla disponibilità dei vari Lionel Messi, LeBron James e Matteo Berrettini di mettere a rischio le loro carriere, o i loro cospicui conti in banca, inginocchiandosi a sostegno delle donne.

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