Ciclismo
Quando finisce il Giro d’Italia [e già pensi al Tour]
Un senso di vuoto generale: è ciò che si avverte sempre al termine di una corsa a tappe di tre settimane, come il Giro d’Italia. Perché il ciclismo è anche questo, se ci pensate bene: la più grande forma di “serialità” narrativa mai inventata.
Il Giro appartiene agli addetti ai lavori, ai corridori, agli sponsor, ai giornalisti, ai tifosi a bordo strada, agli appassionati come me, che ne scrivono. Ma non solo. Appartiene anche ai tanti telespettatori non esperti che vi trovano un rifugio temporaneo, per sfuggire all’inesorabilità della vita: gli anziani, le persone sole, quelle bloccate da problemi di salute, eccetera.
Il Giro tiene compagnia e avvolge, con la sua quotidianità. È una promessa emotiva che non delude mai.
Anche per questo motivo, non esistono edizioni “brutte” del Giro, solo edizioni agonisticamente minori rispetto ad altre più memorabili. Quello concluso ieri, nel meraviglioso scenario dell’Arena di Verona, è stato un Giro minore, non superlativo. Dobbiamo prenderne atto con serenità, senza indulgere in critiche facili ed eccessive.
Qualche riflessione può essere fatta, però, con spirito costruttivo.
Il disegno complessivo di questa edizione numero 102 era piuttosto singolare: una lunga sequenza di tappe piatte o modestamente vallonate, oltre alle prime due crono (paradossalmente, entrambe con dislivelli significativi), seguita da un concentrato di montagne e salite che, alla fine, si è rivelato meno estremo di quel che era sembrato a priori.
Forse, la prima parte della corsa, così poco attraente per chi attendeva il confronto tra i “big” della classifica generale, è stata una scelta strategica degli organizzatori, mirata ad attirare i migliori sprinter della scena internazionale. Come dire: vi lasciamo a lungo la ribalta, per vincere tappe e giocarvi la maglia ciclamino, così avrete visibilità continua; poi dovrete affrontare una prova di sopravvivenza lungo le grandi salite.
Ha funzionato solo in parte, solo sulla carta.
Perché il novero dei velocisti puri, in partenza, era molto interessante. Purtroppo, le dinamiche di corsa (squalifiche, cadute, ritiri) hanno reso la “guerra” tra ruote veloci molto meno esaltante di quel che avrebbe potuto essere.
Lo stesso è avvenuto per la sfida tra i gli aspiranti alla maglia rosa finale. Il lotto dei pretendenti era qualificato: due vincitori di edizioni passate del Giro, un vincitore del Tour, un vincitore della Vuelta, alcuni nomi nuovi di grandissimo potenziale, attesi da tutti.
Purtroppo, l’infortunio di Egan Bernal, pochi giorni prima del prologo di Bologna, il ritiro di Tom Dumoulin dopo la tappa di Frascati e la scarsa condizione di Simon Yates hanno prematuramente ridotto, di molto, il peso specifico della contesa per il gradino più alto del podio, soprattutto in montagna.
Ciò che mancava del tutto, fin dalla partenza, era la pattuglia dei grandi campioni da classiche: Sagan, Gilbert, eccetera. Una carenza strutturale che si registra ogni anno e che è dovuta a due ragioni: la necessità di questi corridori di riconquistare una buona condizione di forma, dopo la prima parte di stagione che li ha visti sempre impegnati, e la maggior attrattività del Tour de France, dove li troveremo tutti (o quasi) schierati.
Forse può essere anche questo il motivo per cui, di fatto, il disegno di questo Giro non contemplava nessuna frazione da veri cacciatori di classiche. Ma sarebbe stato utile averne qualcuna, per animare la corsa e renderla meno monocorde, anche in assenza di grandi specialisti.
Per il pubblico generalista italiano, quello che non segue il ciclismo con dedizione assoluta e continua, ma si appassiona solo per i grandi eventi, era un’edizione difficile da decifrare: oltre ai campioni delle classiche, mancavano altri grandi nomi di riferimento, quelli che chiunque conosce semplicemente leggendo i titoli dei giornali e aprendo i principali siti web. Froome, Thomas e Quintana avevano scelto di prepararsi in modo esclusivo per il Tour. Aru è fuori gioco da tempo per un problema fisico. Bettiol, recente trionfatore al Giro delle Fiandre, non partecipava.
Così, le aspettative del grande pubblico nazionale erano tutte riposte in Vincenzo Nibali, per la conquista della maglia rosa finale, e in Elia Viviani per le vittorie di tappa nelle frazioni da velocisti. Due campioni, due nomi noti a tutti.
Ma non è andata come molti desideravano.
Il prematuro ritiro di Elia, senza vittorie, ha lasciato tutto il peso dell’audience generalista nazionale sulle spalle di Nibali. Vincenzo è un “vecchio” ragazzo molto solido, ma non è un supereroe della Marvel. La continua centralità conferita alla sua figura dai media italiani, sempre desiderosi di vellicare il lato emotivo più banale del pubblico, non gli ha fatto un favore. Immagino che non sia bello correre avendo intorno un Paese che, in misura rilevante, ritiene ovvio e scontato che tu vincerai. Perché è normale che tu vinca. Quindi devi vincere, o qualcuno resterà deluso.
Alla fine, Vincenzo non ce l’ha fatta. Ha quasi 35 anni: nessuno ha mai vinto il Giro a quell’età. Ma è arrivato secondo: ennesimo grande risultato per un campione già entrato di diritto nella storia dello sport. Qualcuno non ha ancora capito la rilevanza di quanto ottenuto da Nibali. In parte, perché i media italiani hanno continuato a veicolare al pubblico l’idea che Vincenzo avrebbe potuto compiere imprese mirabolanti, quasi miracolose, fino al giorno prima della cronometro finale. O, addirittura, in occasione dell’ultima frazione.
La serenità di Nibali nei “dopo-corsa” delle ultime tappe, come sempre, parlava per lui: sapeva di dover lottare per il secondo posto e su quello si è concentrato, riuscendoci molto bene.
Su Vincenzo Nibali voglio dilungarmi un po’ perché, pur non conoscendolo di persona, gli voglio bene.
Nibali è l’ultimo panda in circolazione, l’ultimo corridore old school di un ciclismo ormai globalizzato e specializzato. È l’unico, dagli anni Novanta del secolo scorso, ad aver vinto tutte le grandi corse a tappe di tre settimane (Tour, Giro, Vuelta) e, contestualmente, due “classiche monumento” tra loro agli antipodi come caratteristiche (Sanremo e Giro di Lombardia). In una fase storica in cui tutti i corridori programmano scientificamente la propria stagione agonistica, in funzione di un numero ridotto di obiettivi importanti da conseguire, Vincenzo è uno dei pochi che ancora trasmette la sensazione che qualcosa di emozionante potrebbe accadere comunque, sempre, ogni volta che attacca il numero sulla maglia e prende il via. Non è poco. Anzi: è proprio tanto. Nessuno ha diritto di criticarlo o di essere scontento per il suo secondo posto finale. Semmai, dovremmo interrogarci su cosa resterà del ciclismo italiano contemporaneo il giorno in cui Vincenzo deciderà di smettere con il professionismo, per dedicarsi a una nuova fase della sua vita. Lascerà un vuoto impressionante. Difficile, al momento, intravedere qualche erede davvero all’altezza.
Meritatamente, questo Giro d’Italia l’ha vinto Richard Carapaz: un corridore relativamente giovane, noto agli appassionati di ciclismo, ma ancora poco conosciuto dal grande pubblico meno esperto. Forse diventerà un protagonista eccellente delle corse a tappe del futuro. Forse, ha solo trovato la condizione migliore in una situazione che è andata evolvendo in modo favorevole per lui. In ogni caso, è istantaneamente diventato il nuovo eroe popolare del suo Paese: l’Ecuador. Incarna una bella storia di emancipazione e riscatto sociale attraverso la bicicletta, Carapaz. Ciò lo aiuterà a divenire, sempre più, anche a livello internazionale, un beniamino della gente. Glielo auguro sinceramente.
È stata un’edizione del Giro rivedibile dal punto di vista della produzione televisiva della Rai, ma questo è un tema sul quale molti, io compreso, si sono già espressi e dilungati. Continuare con le critiche sarebbe sgradevole, quasi una forma di accanimento contra personam. E non è questo il senso del discorso.
Il senso è un altro ed è davvero semplice: il Giro è il più grande strumento di alfabetizzazione territoriale di cui disponiamo, collettivamente, come Paese. Anche un potente fattore di promozione turistica ed economica. Dobbiamo tutti cercare di usarlo al meglio, per finalità alte, di utilità pubblica.
Dobbiamo puntare a emulare davvero il modello del Tour de France: una corsa ciclistica che – per ragioni storiche e culturali – è percepita da un intero Paese come una “istituzione”. Anche dalle massime cariche politiche, che si recano regolarmente a fare visita alla Grande Boucle per testimoniare questo sentimento di appartenenza collettiva.
In Italia, ciò non accade.
Bisogna chiedersi perché.
Forse al Giro mancano alcuni fattori simbolici. Primo, tra tutti: una sede di arrivo fissa, inamovibile.
Il Tour de France, nella sua storia, ha sempre avuto Parigi come città di arrivo. Dal 1905 al 1967, l’ultima tappa si è sempre conclusa sulla pista del Velodrome Parc de Princes. Dal 1975, si conclude sempre con un circuito lungo gli Champs-Élysées.
Per molte edizioni, il Giro d’Italia è arrivato al celebre Velodromo Vigorelli di Milano. Oggi, quel velodromo è tornato a vivere e potrebbe di nuovo essere la sede simbolica di chiusura della corsa.
Se uno scenario più prestigioso sembra preferibile, si opti sempre per l’Arena di Verona, come ieri, o per l’area intorno al Colosseo di Roma, o per piazza del Duomo a Milano.
O altro: come Paese, non temiamo confronti, a livello internazionale, dal punto di vista delle possibili location spettacolari. Ma c’è bisogno di continuità, di radicamento simbolico.
Tutto il resto è storia, ancora da scrivere.
Credits immagine di copertina: https://www.facebook.com/giroditalia
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