Ciclismo
Ma Pantani non si drogava
L’inchiesta de “Le Iene” sulla morte di Marco Pantani condotta da Alex De Giuseppe apre una ferita e la cicatrice si riesuma e ritorna sanguinante: il Pirata non è morto suicida, solo abbandonato e reietto in quel maledetto albergo della provincia riminese, ma sarebbe stato ammazzato, in un traffico di droga cui non poteva starci.
Mangiato da pescecani.
Forse verrà fuori anche che era integro e puro e non si dopava: le provette di ematocrito a Madonna di Campiglio, quando era ormai suo un altro Giro di Italia il 5/6/1999, sono state alterate a sua insaputa ed il povero Marco quando dichiarava “ora non mi riprendo più” diceva la verità.
Chi ama il ciclismo ed ha vissuto gli anni di Marco, il Pirata, davanti alla tv con gli epici commenti di Adriano De Zan, aveva piacere a commuoversi.
Era dai tempi di Coppi che non si vedeva un italiano dominare le montagne: Marco era una libellula quando si alzava dal sellino e si inerpicava come uno scoiattolo su tornanti che spezzavano il cuore, perché di una pendenza proibitiva e disumana a scalarsi.
Eppure vederlo con i suoi scatti sul passo del Mortirolo che si trova a 1800 metri di altitudine con cime che sfiorano i 3000 metri o sul passo dello Stelvio o sulle Deux Alpes al Tour de France, o all’ Izoard – la cima Coppi – era per tutti gli amanti del ciclismo la gloria che si faceva storia.
La mattina si leggevano sulla Gazzetta dello Sport trionfalistici commenti di Candido Cannavò, come se avessimo vinto un altro mondiale di calcio.
Marco era una sola cosa con la bici: unico al mondo, un mito irresistibile.
Il pirata non solo scalava le montagne, ma danzava sulla bici, irrideva gli avversari quando lanciava via il berretto ed impettito divorava le pendenze: la sofferenza diventava dolcezza, come se quelle curve che distruggevano il fiato ed il cuore di tutti all’estremo della fatica, per il pirata, con la bandana gialla, fossero distese pianure.
E così De Zan piangeva e si commuoveva, quando commentava le sue gesta di atleta felice che stracciava gli avversari: non potevano reggere il suo passo veloce ed ansimanti e con il fiato corto dondolavano freneticamente la testa, come per dire: “è impossibile prenderlo, non ce la possiamo fare”. Si involava leggero tra ali di folla osannanti ai lati delle strade, mentre gli avversari nel gruppo erano piantati sui pedali.
Era amato anche dai francesi, perché come Coppi è stato l’ultimo italiano a vincere Giro di Italia e Tour de France.
Candido Cannavò, in un memorabile editoriale apparso sulla Gazzetta dello Sport – 14 febbraio del 2004 – all’indomani del ritrovamento del suo cadavere in uno squallido residence di Rimini, così commentò l’infausto evento: “Ma io penso alle sue montagne, alla famosa tappa del Galibier con arrivo alle Deux Alpes, penso a quella maglia gialla emersa dalla tempesta. E penso infine a quello che, grazie a Pantani, ho scritto sulle pagine rosa. Molte cose terribili sono successe dopo. Ma io di quelle pagine non rinnego una sola sillaba. Per me, in quei giorni di ebbrezza, Pantani era una verità scolpita nella leggenda. Non lo tradisco con il minimo pentimento. Oggi posso dire che a quel ragazzo, da cui un giorno mi sono sentito tradito, ho voluto bene. Ed è lui che piango con una terribile angoscia, pensando alla tomba che si è scelto e ai suoi genitori. Il campione, per me, non esisteva più da quello sventurato 5 giugno. Solo adesso sappiamo che anche l’uomo Pantani stava eclissandosi in una tragedia”.
Se l’inchiesta di Alex troverà il suffragio dimostrativo anche per la commissione Antimafia, Pantani è come se ritornasse in mezzo a noi ed il suo sorriso all’arrivo sulle montagne come se riacquistasse lucentezza: lo porteremo dentro senza macchia, perché non si drogava e lo hanno ucciso.
Biagio Riccio
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