Ciclismo

Il Giro incorona Pogacar, fuoriclasse del secolo

28 Maggio 2024

Un uomo solo al comando. La sua maglia è rosa. Il suo nome è Tadej Pogacar. Così si può riassumere il Giro d’Italia, edizione 2024, andando un po’ a scomodare la celebre frase del grande Mario Ferretti, che con analoghe parole immortalava il Campionissimo settantacinque anni fa. Il fuoriclasse sloveno è stato il dominatore incontrastato della corsa rosa, come era lecito aspettarsi. Ha conquistato la maglia del leader alla seconda tappa ad Oropa, nel luogo che fu teatro della memorabile impresa di Marco Pantani, e non l’ha più lasciata, fino alla parata sui Fori Imperiali. Avversari annichiliti, sempre che si possano considerare competitor gli atleti che si sono spartiti gli avanzi lasciati dal nuovo Cannibale del ciclismo odierno. Buoni o ottimi corridori, certo: qualcuno nella fase finale della carriera, come Geraint Thomas, qualche altro con un futuro davvero promettente, vedi Antonio Tiberi, altri ancora, come Daniel Martinez, alla loro migliore performance di carriera, grazie alla quale non hanno sfigurato sulle strade italiane, ma il confronto con il numero uno è stato impietoso. La grandezza di Tadej, del resto, in attesa di battaglie più impegnative al Tour de France, non si è misurata certo solo con la vittoria finale, ma sottende ben altri significati.

 

I quasi dieci minuti di vantaggio sul secondo classificato, le sei vittorie di tappa (come Merckx nel 1973), la maglia azzurra del leader dei GPM conquistata insieme alla rosa, le quattordici vittorie collezionate da inizio anno. Sono solo alcuni dei numeri del campione del Giro 2024, che si aggiungono alle decine di vittorie in carriera ottenute prima del 4 maggio. A venticinque anni il Bimbo, come da ormai datato appellativo del commentatore Riccardo Magrini, ha già messo in bacheca la terza grande corsa a tappe, che si posiziona per status a fianco delle sei classiche monumento conquistate, ultima la Liegi Bastogne Liegi di un mese fa. Ma più ancora delle cifre, la grandezza del Pogacar ciclista si osserva ammirandone lo scatto bruciante, la costanza della progressione, la semplicità con la quale scala le montagne ad un ritmo sostenuto ma senza troppo scomporsi, mentre gli avversari arrancano o giungono presto al limite. Il vuoto che il campione sloveno produceva dietro di sé in poche decine di metri ha ben pochi termini di paragone. E’ stato fortemente esplicativo, al primo arrivo in salita, ad Oropa, osservare le conseguenze patite da Ben O’Connor, che aveva provato a seguirlo e a stare nella sua scia: scoppiato all’improvviso, l’australiano, che ha chiuso buon quarto nella generale, ha dovuto poi cedere il passo anche ad altri corridori che, più prudentemente, avevano scelto di salire col proprio passo. Ma l’immagine più bella del trionfo di Tadej, anche in senso scenografico, è probabilmente l’impresa sul Mottolino. Nella tappa che ha portato la carovana a Livigno, Pogacar si è lasciato il gruppetto dei migliori alle spalle, nel magnifico scenario innevato del Passo del Foscagno, e ha saltato uno dopo l’altro i corridori in fuga, con disarmante facilità, giungendo in solitaria sulla cima che domina la cittadina valtellinese, a quasi 2400 metri di altitudine.

 

 

Se il Tadej Pogacar corridore è un fenomeno riconosciuto, il campione della UAE non è da meno in quanto a profilo umano e comunicativo. Il ciclismo con lui ha ritrovato un personaggio di alta caratura, che, verosimilmente, mancava dai tempi di Marco Pantani. La simpatia che suscita nell’ambiente, l’uso dei social network, le tracce delle scalate condivise sull’app Strava, i comportamenti tenuti con pubblico e con gli altri corridori, la sua faccia sempre sorridente a fine corsa elevano ulteriormente le qualità dello sloveno ben oltre il classico campione di questo sport, e aumentano l’interesse generale, che fa breccia anche tra i media generalisti. L’immagine della maglia rosa che dona la borraccia appena ricevuta da un massaggiatore al ragazzino che gli corre accanto in salita è stata uno spettacolo, come il cinque concesso a un altro bambino sulla salita del Monte Grappa. Pogacar si è indubbiamente guadagnato le simpatie di tanti tifosi italiani anche per l’atteggiamento dimostrato nei confronti del giovane Giulio Pellizzari, bella speranza del nostro ciclismo, nelle due occasioni in cui lo ha trovato sulla sua strada durante le cavalcate verso il traguardo, cercando palesemente di portarselo dietro e facendo capire che gli avrebbe volentieri lasciato la tappa, se il marchigiano avesse avuto un po’ più di gambe per stare al ritmo. Tutto questo show, peraltro, non va a vantaggio solo dell’immagine del ciclista sloveno, ma porta agio a un intero sport, e, in particolare, ad una competizione che, negli ultimi anni, o per il calendario, o per le strategie di preparazione delle squadre, sempre più scientifiche, ha sofferto la carenza di protagonisti, più focalizzati sul Tour de France. Le polemiche sulla mancanza di suspense in relazione alla lotta per la maglia rosa si sono insomma presto spente, di fronte allo spettacolo che, in quasi ogni tappa di montagna, ha garantito lo sloveno. Soprattutto se ci si ricorda il triste giro dello scorso anno, con l’eccezione della cronoscalata finale sul Monte Lussari, che incoronò a sorpresa Primoz Roglic.

 

Certo, e non va dimenticato, non di solo Pogacar vive il ciclismo di oggi. Gli anni ’20, per chi ama questo sport, stanno regalando emozioni che si sono viste raramente negli ultimi trent’anni, grazie ad una generazione di campioni non facilmente replicabile. I duelli sulle strade del nord polverose e lastricate di pavè tra il neo vincitore del Giro e avversari quali Mathieu Van der Poel, Wout Van Aert e l’altro enfant prodige Remco Evenepoel, si avvicinano a far ricordare i tempi eroici del ciclismo in bianco e nero, come dimostrano gli attacchi “folli” e le conseguenti fughe solitarie fino al traguardo di Pogacar alla Strade Bianche, a 81 km dalla conclusione, e di Van der Poel alla Roubaix, a 59 km dall’arrivo. Non di meno, la passione dei tifosi trova ampia soddisfazione al Tour de France, e talvolta pure alla Vuelta a Espana. La corsa a tappe francese, nelle ultime quattro edizioni ha vissuto sfide sensazionali, a colpi di scatti, scalate e incredibili rimonte a cronometro, che hanno visto trionfare Pogacar nel 2020 (contro Roglic) e nel 2021 (contro Vingegaard), e Jonas Vingegaard nel 2022 e 2023, davanti allo stesso Pogacar. In particolare, la sfida tra il danese e lo sloveno ha assunto toni epici, ragion per cui si auspica di rivederla anche tra un mese, sempre che il detentore del Tour riesca a recuperare la forma dopo la brutta caduta al Giro dei Paesi Baschi di inizio aprile.

 

In tutto questo, in mezzo a tante difficoltà, qualche segnale di ripresa arriva anche dal ciclismo azzurro. Sono purtroppo lontani i tempi dei Pantani, dei Cipollini e anche dei Nibali, e il ciclismo ipertecnologico di oggi, che richiede importanti investimenti da parte degli sponsor, ha fatto piazza pulita dei team italiani (venti-trent’anni fa Mapei, Lampre, Gewiss, Saeco, Carrera la facevano da padrone, mentre oggi non ci sono più squadre del nostro paese tra quelle del circuito World Tour). Eppure qualcosa si muove. Tiberi ha le carte per diventare il nuovo Nibali, se continua la crescita, Jonathan Milan è già tra i re delle volate, Filippo Ganna si conferma tra i top mondiali nelle crono, e all’orizzonte si vedono già giovani in rampa di lancio come Pellizzari e Piganzoli, senza dimenticare i vari Bettiol e Ciccone, che negli ultimi anni qualche risultato lo hanno portato. Il futuro, insomma, se non è roseo, non sembra nemmeno nero, per i nostri colori. Nel frattempo, lo sloveno col ciuffo traccia la strada per tutti.

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