Ciclismo
Il fantasma di Coppi [quando finisce la pianura]
Da Cuneo a Pinerolo: è la frazione “cerniera” di questo peculiare Giro d’Italia disegnato come due corse diverse, ma unite, quasi fosse la combinazione tra una Parigi-Nizza e una delle edizioni più dure ed estreme del Giro del Trentino (oggi “Tour of the Alps”) o del Critérium du Dauphiné.
Si viaggia verso un micidiale concentrato di montagne che inizierà domani, con la frazione Pinerolo-Ceresole Reale, e proseguirà – confidando nel meteo e nella praticabilità delle salite – fino alla crono conclusiva di Verona. Ma, già oggi, il gruppo deve scalare il primo GPM di 1^ categoria di questa edizione della “corsa rosa”: la salita di Montoso, circa 9 chilometri di ascesa, pendenza media del 9,4%. Mancheranno ancora 22 chilometri al traguardo. Ci sarà discesa, poi terreno tranquillo fino a circa tremila metri dall’arrivo. Lì, i corridori troveranno il muro di via Principi di Acaja: 450 metri sul pavé, con pendenze che possono arrivare fino al 20%.
Questa Cuneo-Pinerolo è molto diversa dalla celebre tappa del 1949 che, partita e arrivata nelle stesse località, ma con un tracciato molto più impegnativo, eternò il mito di Fausto Coppi come “Campionissimo” del ciclismo. È il 10 giugno, la diciassettesima frazione di quel Giro. In mezzo al freddo e al tempo inclemente, su strade in buona parte non asfaltate, Coppi attacca sul Colle della Maddalena (1.998 metri s.l.m.) e prosegue da solo scalando le altre micidiali vette di giornata: il Vars (2.111), l’Izoard (2.360), il Monginevro (1.854), il Sestriere (2.033). Percorre in fuga solitaria 192 dei 254 chilometri previsti. Arriverà a Pinerolo con 12 minuti di vantaggio su Gino Bartali, attardato anche da problemi al cambio, e con 19 minuti sull’indimenticato Alfredo Martini.
Dalle pagine de Il Corriere della Sera, Dino Buzzati raccontò così quella frazione: «Questa tappa divoratrice di uomini – mai vista una corsa ciclistica così tremenda, dicevano stasera i tecnici più sperimentati – cominciò in una tetra valle, con pioggia, nuvoloni, nebbia bassa, disagio, depressione […]». È l’articolo in cui la sfida tra Coppi e Bartali viene interpretata come il duello epico tra Achille ed Ettore, anche se Buzzati deve ammettere che «Fausto Coppi certo non ha la gelida crudeltà di Achille: anzi, tra i due campioni è certo il più cordiale e amabile. Ma in Bartali anche se scostante e orso, anche se inconsapevole, c’è il dramma come in Ettore, dell’uomo vinto dagli dei».
Quella sfida epica non è solo materia sportiva. Simbolicamente, è la sintesi migliore della grandezza del ciclismo italiano di quegli anni, al di qua e al di là delle Alpi, in un momento storico in cui ancora permanevano tensioni con la Francia e i francesi, che – nonostante la pace e la ricostruzione di buoni rapporti diplomatici nel dopoguerra – non si erano dimenticati il «Coup de poignard dans le dos» (il colpo di pugnale alla schiena) del 1940.
Lo racconta bene Daniele Marchesini nel suo libro “Coppi e Bartali” (1998): probabilmente, il testo più importante per capire l’assoluta rilevanza dell’epoca d’oro del ciclismo italiano, per la storia del nostro Paese e per la nostra capacità collettiva di ricostruire prestigio e credibilità, nel contesto internazionale, dopo la Seconda Guerra mondiale. Una dinamica che troverà un riscontro fondamentale nell’attribuzione a Cortina d’Ampezzo delle Olimpiadi invernali del 1956 e, poi, dei Giochi della XVII Olimpiade a Roma, nel 1960.
Fausto Coppi non potrà seguire le olimpiadi romane: muore prematuramente il 2 gennaio di quello stesso anno. Diventa mito.
La miglior definizione di Coppi, come corridore vivo e vincente, è quella che ne diede Roland Barthes nel suo celebre saggio “Il Tour de France come epopea” (1955): «COPPI. Eroe perfetto. Sulla bicicletta ha tutte le virtù. Fantasma temibile».
Barthes, come spesso gli capitava, non solo aveva capito tutto del suo presente, ma aveva anche intuito come i fenomeni che osservava avrebbero potuto influenzare il nostro futuro.
Fausto Coppi, infatti, continua a essere davvero un fantasma temibile. Un’entità con cui il ciclismo (quello italiano in particolare) deve necessariamente misurarsi ancora oggi. Anche per questo motivo, sulle sue imprese sportive e sulla sua vita breve e intensa, esiste una bibliografia straordinariamente ricca. Un deposito di testi che continua a crescere anno dopo anno, generando volumi interessanti e meritevoli: come l’imminente “Alfabeto Fausto Coppi” di Gino Cervi e Giovanni Battistuzzi, che sarà pubblicato da Ediciclo e che attendo con impazienza di poter leggere.
Ma Coppi non è l’unico fantasma temibile ad aleggiare sulla seconda parte di questo Giro d’Italia: ci sono anche le salite terribili, con le loro specifiche storie e le loro difficoltà, soprattutto quella del Passo del Gavia che rese epocale la tappa da tregenda del 5 giugno 1988. Poi, ci sarebbe anche il ventennale dei fatti che coinvolsero Marco Pantani a Madonna di Campiglio, il 5 giugno del 1999.
Questo Giro si concluderà tre giorni prima di quella data fatidica, ma se ne parlerà comunque, inevitabilmente. Anche per questo motivo, questa rubrica su Gli Stati Generali si intitola “Il Giro di vite”: un omaggio alla celebre ghost story scritta da Henry James (1898).
Ma non bisogna avere paura dei fantasmi, almeno nel ciclismo. Bisogna semplicemente conviverci e cogliere la loro presenza come stimolo per essere migliori.
Deve averlo capito bene Cesare Benedetti, vecchio ragazzo trentunenne, gregario della Bora, che oggi, dopo la partenza da Cuneo, va in fuga con altri 24 corridori. Il suo fantasma personale è la vittoria: in una decennale carriera da ciclista professionista, non è mai riuscito a conquistare un successo. Sa che il suo compito è andare in avanscoperta, dare visibilità agli sponsor che punteggiano la maglia della sua squadra, ma anche essere pronto a tornare nei ranghi, per aiutare i compagni, se il gruppo deciderà di riprendere i fuggitivi.
È un’eventualità improbabile, però. Nessuno vorrà inseguire davvero, oggi, pensando a tutte le salite che arriveranno poi. È la classica situazione da due corse in una: i fuggitivi che pedalano per la vittoria di tappa, il gruppo dei “big” che compete per la classifica generale.
Infatti, la fuga va, accumula vantaggio, arriva ai piedi della salita del Montoso con oltre dieci minuti sul plotone. Quello è il vero innesco del Giro, come si era capito da tempo. E la corsa inizia a deflagrare lentamente, anche se nessuno aveva intenzione di incendiarla.
La fuga si allunga e si sfalda. E così fa il gruppo.
Valerio Conti, dopo un’ammirevole settimana in maglia rosa, abdica diligentemente.
Bob Jungels, uomo da classifica, cede e perde terreno dai migliori.
Landa e Lopez tentano la sortita per recuperare un po’ dello svantaggio che già patiscono nei confronti dei principali favoriti.
Intanto, Nibali, Roglič e Yates si controllano e si misurano.
Ma è davanti, dove procede ciò che resta della fuga di giornata, che accade l’improbabile.
Benedetti resiste in salita e in discesa dal Montoso. Si stacca, ma non molla, quando Capecchi e Brambilla, seguiti dal giovane Dunbar, sferrano un poderoso attacco sul muro finale di via Principi di Acaja. A poco più di mille metri dal traguardo, sembra proprio che la vittoria sia una questione tra loro tre: iniziano a studiarsi in vista della volata. Rallentano.
Così, d’improvviso, proprio come fantasmi, alle loro spalle si materializzano Damiano Caruso e lo stesso Cesare Benedetti.
Parte lo sprint ed è il vecchio ragazzo, quello che non aveva mai vinto, a rivelarsi il più temibile.
Riferimenti:
– Barthes R. (1955), “Le Tour de France comme épopée”, in: “Mythologies”, Éditions du Seuil, Paris 1957 (trad. it.: “Il Tour de France come epopea”, in “Miti d’oggi”, Einaudi, Torino, 1974).
– Buzzati D. (1981), “Dino Buzzati al Giro d’Italia”, Mondadori, Milano
– James H. (1898), “The Turn of the Screw”, in: “Collier’s Weekly”, Collier, New York (trad .it.: “Giro di vite”, Rizzoli, Milano 1934).
– Marchesini D. (1998), “Coppi e Bartali”, Il Mulino, Bologna
Credits foto di copertina: https://www.facebook.com/giroditalia/
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