Ciclismo
Dura lex, sed lex
Più che una tappa, sembra un concorso a premi: “Vinci Orbetello!”.
E ci sarebbero ottimi motivi per partecipare. Perché Orbetello è un luogo davvero affascinante, per la sua peculiare conformazione territoriale e per le sue eccezionalità paesaggistiche: la laguna, il Tombolo della Feniglia e quello della Giannella, la diga Leopoldiana che porta al promontorio dell’Argentario, il Mulino spagnolo, eccetera.
Questa parte di costa toscana, a me, è sempre sembrata un pezzo di Francia atlantica trapiantato in Italia. Roba da arrivo di tappa del Tour, più che del Giro. Probabilmente sbaglio: è tutta colpa del mio immaginario, del mio amore per l’Île de Noirmoutier e il Passage du Gois. Ma sbaglio di poco: anche da queste parti, infatti, si possono praticare alla grande il windsurf e il kite-surf. Per il surf classico vi consiglio Quercianella, ancora più a nord: una sorta di piccola Biarritz. Ma lì è provincia di Livorno: un altro universo, secondo i miei amici toscani.
Insomma: vale la pena pedalare questi 220 chilometri vallonati. Frazione facile, ma molto lunga: una tappa della Maremma.
Lo capisce subito Sho Hatsuyama, trentenne giapponese del team Nippo-Fantini: saluta tutti e va in fuga, da solo, verso il nulla. Sarebbe banale paragonarlo al pilota di uno Zero che vuole farsi vento divino. C’è già, il vento, ed è impetuoso: la variabile rilevante di questa tappa. Ma potrebbe anche piovere, come insegna la Legge di Murphy. Hatsuyama si immerge nella dimensione mistica del fuggitivo consapevole di non avere speranze: “The Loneliness of the Long-Distance [Rider]”, parafrasando il titolo di un celebre racconto di Alan Sillitoe (1959). Non sente nemmeno le indicazioni che gli giungono dall’ammiraglia. Strane interferenze radio trasmettono ai suoi auricolari una vecchia canzone degli Iron Maiden, che di Sillitoe è sempre stata l’unica sintesi possibile: «You’re over halfway there but the miles / They never seem to end / As if you’re in a dream / Not getting anywhere / It seems so futile». Infatti, lo riprendono quando mancano 75 chilometri al traguardo. È crudele che a guidare la prematura rincorsa del gruppo, a lungo, sia stato Thomas De Gendt: uno che sulle fughe pazze e sregolate ha costruito vittorie epiche e una carriera deluxe.
Hatsuyama scompare nella pancia del gruppo e inizia un’altra corsa. Il vento fa il suo giro e fa suo il Giro. Cambia direzione. Da favorevole diventa laterale, spazza la strada, crea i presupposti per formare un “ventaglio” e spaccare il gruppo. Ci provano gli uomini della Bora: nomina sunt omina. Ma non funziona.
Il gruppo continua a procedere compatto verso l’unico GPM di giornata: il “quarta categoria” di Poggio l’Apparita, posto a 38 chilometri dal traguardo. Giulio Ciccone veste la maglia azzurra di leader della classifica degli scalatori. Vuole incrementare il bottino. Si porta nelle prime posizioni, poi fa uno scattino resistibile, come sapesse che nessuno lo contrasterà. E così accade: transita per primo in cima alla salita. Bottino pieno.
Da lì in poi si va al traguardo: discesa e una ventina di chilometri di pianura. Il panorama è mozzafiato: non ha niente di speciale da mostrare, salvo l’assoluta e verdeggiante bellezza del paesaggio agricolo. Ormai si viaggia a velocità di crociera, come in una gita sociale con wattaggi ipertrofici, in attesa delle grandi manovre che sempre precedono un arrivo allo sprint. Cavalli e asini corrono liberi nei campi, mentre si susseguono problemi meccanici per gli uomini di EF e Movistar.
E le grandi manovre iniziano, ai meno otto. I treni delle squadre si formano, si intersecano, si sfaldano. È tutto prematuro. Così, inesorabilmente, quando mancano cinque chilometri al traguardo, arriva la caduta in gruppo. Il plotone si spezza. Davanti resta un pattuglione di una quarantina di corridori. Tirano come forsennati e lanciano lo sprint mentre si attraversa la laguna. La regia della RAI è pessima, in questo frangente: resta concentrata ossessivamente sui corridori, perdendosi tutto ciò che di bello e rilevante si sarebbe potuto mostrare del paesaggio, senza tralasciare l’agonismo. È la prima volta che mi capita di criticare le immagini della RAI, da quando seguo il ciclismo: gli standard assoluti della regia del Tour de France sembravano sempre più vicini, anno dopo anno. Adesso, invece, è regressione totale.
Lo showdown tra velocisti va in scena quando mancano 350 metri al traguardo. Ed è un vero shootout. Frenesia totale. Pascal Ackermann, ieri trionfatore, si innesca ed esplode verso il traguardo. Ma dietro di lui esplode anche Elia Viviani. Scarta a sinistra, Elia, bruscamente, nervosamente, come a volersi scrollare chiunque di ruota e qualunque cosa di dosso. Anche la brutta maglia di Campione nazionale che qualche pessimo designer gli ha confezionato apposta per questo Giro: molto meglio la versione indossata nei primi mesi della stagione. Li fulmina tutti, Elia.
Ma ha deviato troppo di traiettoria, per le attuali disposizioni del regolamento: lo declassano per aver interferito con lo sprint di Moschetti. Decisione forse discutibile della Giuria. In ogni caso: dura lex, sed lex.
Vince Fernando Gaviria, ufficialmente. Si guarda bene dal festeggiare, sul podio: è cresciuto in pista, come Viviani, e ha un’altra concezione degli sprint.
Come noi.
Riferimenti
– Sillitoe A. (1959), The Loneliness of the Long-Distance Runner, W. H. Allen & Co., London
– Iron Maiden (1986), “The Loneliness of the Long-Distance Runner”, in: Somewhere in Time, EMI
Credits immagine di copertina: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Mulino_Spagnolo_di_Orbetello.jpg
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