Calcio

Trump, Xi Jinping e la diplomazia parallela del calcio planetario

6 Giugno 2019

Il soccer oltre la politica di Trump

Chissà se il presidente Trump sia un appassionato di calcio o tifi per una delle compagini della MLS, la lega professionistica statunitense. Sta di fatto che così si espresse via Twitter lo scorso 27 aprile 2018: “Gli USA hanno messo insieme una candidatura forte con Canada e Messico per i mondiali del 2026. Sarebbe un peccato se i paesi che sosteniamo sempre facessero pressioni contro la candidatura degli USA: perché noi dovremmo sostenere sempre questi paesi quando loro non ci sostengono (anche alle Nazioni Unite)?” Una bordata rivolta alle nazioni amiche e alleate per convincerle a preferire la candidatura nordamericana per l’assegnazione della fase finale della Coppa del Mondo FIFA 2026. La sua moral suasion si rivelò efficace: al trio americano andarono 134 voti contro i 67 dell’altro pretendente, il Marocco.
Per una presidenza avvezza allo shutdown e allo stato di emergenza dichiarato al fine di completare il muro di separazione tra USA e Messico, queste parole possono apparire come una stonatura. Niente di tutto questo. Business is business. Si stima che i mondiali 2026 possano generare introiti per più di 14 miliardi di dollari. La previsione è prudenziale: negli Stati Uniti e in Canada il soccer sta prendendo piede. È ragionevole credere che nei prossimi anni il trend sarà in crescita, con un aumento esponenziale del giro di affari intorno alla Coppa.
Davanti al pallone anche le guerre commerciali possono attendere. Nell’ultima rilevazione Soccerex sui 100 club più ricchi del pianeta, ben 21 disputano il campionato statunitense o cinese. Inoltre il 31% delle proprietà delle squadre incluse nella speciale classifica (che nel suo insieme esprime un valore di quasi 1.000 miliardi di euro) sono targate USA o Cina. Non è un caso, allora, se si fanno sempre più insistenti le voci di un passaggio di testimone tra i due giganti in riferimento alle future edizioni della Coppa del Mondo: come pubblicato dal South China Morning Post il governo cinese guidato da Xi Jinping sta pensando di proporre la propria candidatura per l’edizione del 2030, in collaborazione con vicini asiatici quali Giappone e Corea del Sud.

Mondiali 2022. Dal Qatargate al Project Ball

Ogni mossa per accaparrarsi uno degli eventi sportivi più seguiti del pianeta, secondo solo alle Olimpiadi, è lecita (o, perlomeno, legittimata). L’esempio è dato dal Qatar, accusato di aver messo allestito un sistema di corruttele di svariati milioni di euro pur di spuntarla nell’assegnazione dei prossimi mondiali. I primi dubbi emersero già nel 2010 in concomitanza all’assegnazione dell’evento in favore dell’emirato arabo. Esplosero però qualche anno più tardi, nel 2013, quando la rivista France Football pubblicò le prove di rapporti controversi tra il comitato qatariota e diverse federazioni calcistiche africane, sino alle relazioni pericolose intrattenuta con l’UEFA allora presieduta da Michel Platini. Uno scandalo, quello del “Qatargate”, amplificato nei mesi successivi da nuove indiscrezioni fornite dal Sunday Times. Le indagini interne della FIFA, svolte dal gruppo investigativo in seno al proprio Comitato Etico, hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco. Il report firmato da Michael Garcia ha messo in luce un complesso intrico di relazioni, connivenze, influenze economiche e politiche sottese all’aggiudicazione della Coppa del Mondo. Al punto che la stessa FIFA ne ha ritardato e in parte oscurato la pubblicazione. Ma niente può fermare la macchina che oramai si è messa in moto. Nemmeno i tentativi di imbastire costosissime campagne denigratorie ai danni del Qatar. È di pochi mesi fa la notizia pubblicata dal Guardian circa il progetto avanzato da Sir Lynton Crosby, uno dei massimi strateghi politici e comunicativi del mondo anglosassone, per esercitare una pressione costante sulla FIFA al fine di azzerare e riavviare il processo di assegnazione dei mondiali del 2022. Il piano, denominato “Project Ball”, prevedeva di minare la credibilità del governo qatariota associandone il nome al terrorismo di matrice islamica, contando sull’appoggio di politici, giornalisti, industriali, sportivi e accademici. Un prodotto allettante non solo per gli oppositori al regime dell’emiro Al Thani, ma anche per qualche paese rimasto col cerino in mano dopo le aggiudicazioni della Coppa del Mondo FIFA.

Il calcio: politica e denaro ai quattro angoli del globo

Politica e denaro sono le colonne portanti dell’attuale sistema calcistico. Due notizie degli ultimi mesi, che in Italia hanno avuto un eco limitato, si intrecciano con quanto già descritto, sottolineandone la gravità e il radicamento.
La prima è relativa all’assassinio ad Accra, capitale del Ghana, del giornalista investigativo Ahmed Hussein-Suale. Circa il movente della sua feroce esecuzione, avvenuta con numerosi colpi d’arma da fuoco, non sembrano esserci dubbi. Ahmed ha pagato il proprio impegno nella realizzazione dell’inchiesta giornalistica #Number12 firmata da Anas Aremeyaw Anas, che ha scoperchiato il calderone della dilagante corruzione nel calcio africano. I video girati con telecamere nascoste hanno evidenziato la prassi nel consegnare mazzette agli ufficiali di gara, così che abbiano un occhio di riguardo per questa o quella squadra. Un reportage che ha provocato un terremoto nella Federcalcio ghanese e, più in generale, nella confederazione africana già invischiata nel polverone Qatargate.
La seconda è quella del rilascio a Bangkok, dopo diverse settimane di detenzione, del giocatore bahreinita Hakeem Al-Araibi. Dissidente politico, critico verso lo sceicco Al-Khalifa, fuggì dal suo paese nel 2014 dopo essere stato più volte arrestato e torturato, trovando asilo in Australia. Qui ha potuto ricostruirsi una vita privata e agonistica. Partito lo scorso novembre in luna di miele verso la Thailandia, è stato fermato all’aeroporto internazionale della capitale asiatica a seguito di una richiesta d’arresto internazionale emessa dall’Interpol su mandato del Bahrein. L’eseguibilità della red notice dell’Interpol è parsa implacabile: a nulla è valso lo status di rifugiato di cui gode Hakeem, né che l’accusa riguardasse l’assalto ad un commissariato di polizia in Bahrein avvenuto mentre lui era impegnato in una partita ufficiale. Maggior peso ha avuto la salvaguardia di relazioni diplomatiche amichevoli tra Thailandia e Bahrein, oltre che l’accidente di ritrovarsi in uno dei paesi non firmatari della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Il lieto fine solamente lo scorso 11 febbraio quando Hakeem ha riacquistato la libertà a seguito di una vasta campagna mediatica in suo favore, potendo così far ritorno a Melbourne. Hakeem, seppur calciatore professionista, ha rischiato di rimanere impigliato in una rete che spazia ben oltre i confini del rettangolo verde.

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