Calcio

Sono bianconero e sono blaugrana: vi racconto la mia finale impossibile

6 Giugno 2015

Lo sappiamo bene che il calcio non è poi così importante come lo facciamo. Che importanza davvero ha per la tua vita che la tua squadra vinca un campionato importante? Quasi nessuna, rispetto ai tuoi affetti, alla tua salute e a quella dei tuoi cari, alla vita davvero TUA, quella che decidi tu. O rispetto ai problemi del mondo: la crisi economica, l’offensiva di Alzheimer, il terrorismo, la povertà, il cambio climatico. Alle partite nemmeno dovremmo pensarci.

Eppure, da sempre l’uomo ha avuto bisogno di miti, magari nei tempi moderni divenuti un po’ futili: Messi e Buffon sono i nostri Ettore ed Achille, nella loro eccezionalità ci specchiamo perché vogliamo ricavarne gioie e per un momento anche sentirci partecipi della loro eccezionalità, quantunque limitata al gioco del pallone. Come sa qualunque tifoso, non c’è nessuna differenza tra “noi” e “loro” nostri rappresentanti sul campo. Il gol di Messi è suo e di qualunque blaugrana, la parata di Buffon è sua e di qualunque juventino.
Lo sport, lo sappiamo, è la versione moderna della guerra, anche se molto più soffice: quella che le società avanzate si sono date per scaricarvi le tensioni senza distruggere. Magari la nostra storia fosse stata fatta solo da sfide atletiche, una costante disfida di Barletta per stabilire chi era più forte. Ma è anche rito, come ben sa chi è toccato dal suo fascino. E diminuisce straordinariamente le distanze sociali ed economiche: la passione calcistica accomuna attorno a dei colori persone che la vita non avrebbe mai fatto incontrare. La passione divenuta fanatismo può, certo, generare violenza, ma quella violenza è spesso insita in chi l’esercita, se ci pensiamo bene chi non è violento di per sé non lo diviene a causa del calcio, che è invece più portatore di valori aggregativi (credere assieme in qualcosa) che disgregativi.
Per definizione, il mito tocca la sfera psicologica. Per questo, al di là della sua oggettiva non importanza reale per le nostre vite, il risultato del campo sì ci importa. Perché su quel campo giochiamo anche noi con loro.

La psicologia è componente fondamentale anche dell’identità, una dimensione sempre cruciale, ma ancora più decisiva in un mondo globale, in costante mutazione, che ci mette in crisi. Le identità sociali sono molto più labili d’un tempo, quelle nazionali in crisi, quelle sovranazionali non riescono ad affascinare. Quelle calcistico – sportive invece sì.
Io non sono per niente nazionalista, anzi attribuisco agli eccessi di nazionalismo molti più danni che benefici nel corso della storia. Ho un’identità molteplice e complessa, divisa in Italia tra la Torino nella quale sono nato e la Siena dove sono cresciuto, e poi tra l’Italia dove ho vissuto fino ai ventitré anni e la Spagna che è stata mio riferimento da allora. E permeata da tutti i luoghi in cui la mia attività internazionale mi ha portato a vivere nel corso degli anni: il Marocco, il Brasile, El Salvador, l’India, il Pakistan e decine di altri paesi che ho percorso e in parte mi hanno nutrito, hanno fatto di me quello che sono, con i miei pregi e difetti.

Da uomo che ama lo sport, in tutti questi luoghi ho le mie preferenze sportive, non solo calcistiche. Ma oggi siamo arrivati al vero dunque, il giorno che temevo e al tempo stesso desideravo è arrivato. Le mie due squadre per eccellenza, che amo con eguale amore e trasporto, la Juve e il Barça, si scontrano in una sfida impensabile e senza – ahimè – quartiere.
Tifoso della Juve sin dalla nascita, socio e tifoso del Barça da molti anni, chi avrebbe mai detto che un giorno lo scontro per me fratricida si sarebbe prodotto al massimo livello, proprio la finale di Champions? Ho già vissuto alcuni Barça – Juve, ma nei primi ero ancora più juventino che “culè”, invece adesso sono diviso a metà. Come se fossi un bambino cui chiedono se preferisce mamma o papà, aspetto la finale con ansia, sapendo che il suo risultato mi provocherà comunque tristezza, che probabilmente supererà l’inevitabile dose d’allegria.
Perché il calcio non è solo il calcio, ma come dicevamo all’inizio, è identità. Identità positiva e non distruttiva, il Milan e il Real Madrid basta batterli, non c’è bisogno di ammazzarli.
Nel mio caso, identità divisa. Cosa ti è più caro, da dove vieni o dove hai fatto la tua vita? Qual è più forte, l’identità ricevuta o quella acquisita dopo? Di solito si pensa prevalga la prima. Non ne sono così convinto, ognuno di noi ha dentro di sé risposte diverse.

La Juve è la squadra di sempre, quella della Torino della mia infanzia, di mio padre che soffriva ogni domenica accanto alla radio e della maglietta artigianale bianca e nera, comprata nel negozietto all’angolo in epoca pre – FIFA, senza nomi né numeri. Le bandiere da ricomprare ogni anno, con nuovi trofei. Le Coppe Campioni così spesso perse in finale. Quella che un luogo comune definisce “seconda squadra di Torino”, sarà che così tanti che io conosco sono marziani con cadenza “piemunteisa”. L’amore originale, quello poppato col biberon.
Il Barça è l’amore acquisito, quindi più forte e improvviso. E’ il fascino della Barcellona ancora non di moda in cui arrivai studente nel 1985. Città affascinante e allegra, dagli orari infiniti che rompevano con la seria austerità da cui provenivo. Delle ragazze sorridenti e dei menù del día. Della prima libertà, del primo sapore d’un mondo diverso. Squadra subito amata, così solida nella sua fusione tra una città, una terra (la Catalogna), un’idea (més que un club) e uno stile di gioco sempre esuberante.

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Già quell’anno fu Barça – Juve in Coppa Campioni: più quotata la Juve, ma vinse il Barça.
Con gli anni sono divenuto sempre più barcellonista, e nell’epoca di Messi le soddisfazioni infinite. La Juve sempre nel cuore, ma su binari che potevano correre paralleli senza incontrarsi.
Invece a Berlino si sconteranno, e non so come prenderla: perché come ho spiegato sinora, per me non è una semplice partita di calcio, ma uno scontro interiore tra diverse parti di me.
Sogno una partita bellissima, giocata in equilibrio e con massima correttezza. Magari la più bella della storia, perché no? Nella quale alla fine, come gentiluomini, ci si stringerà la mano riconoscendo ii merito del vincitore e l’onore dello sconfitto. Senza pedate e sfottò. Che comunque arriveranno inevitabili da parte di chi a Berlino non ci è arrivato proprio, eterno paradosso della vita, nella quale sono sempre gli invidiosi i più loquaci.

Insomma, sogno un’utopia, perché la vita non funziona quasi mai così.
Se il calcio è fabbrica di miti, oggi invidio chi ne ha uno solo: due a volte possono risultare ingombranti.
E ora che inizi la sfida e per me, solo per me: Forza Juve, visca el Barça!

 

Stefano Gatto, diplomatico europeo, é autore dell’ebook Italia e Spagna: Destini Paralleli?

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