Calcio

Per capire cosa non va nel calcio italiano, guardate Sfide dedicato a Maldini

29 Marzo 2015

Ho recuperato stasera, con un paio di giorni di ritardo, la puntata di Sfide dedicata a Paolo Maldini. Mi sono commosso, come il ragazzino che festeggiò quasi trent’anni fa il suo primo scudetto da milanista. Il potere dello sport, e del tifo, è che ti fa attraversare con i ricordi di quei colori, delle vittorie e delle sconfitte, intere ere di una vita: ricordi con chi hai tifato quella sera, di chi eri amico allora, chi avevi accanto, chi ora non c’è più. Ma non è solo nostalgia comune ad accompagnare la persona che tifa, non è solo che eravamo più giovani: è che nello specchio del calcio, dello sport nazionale, vedi un paese che cambia. O – e nel nostro caso è peggio – che non cambia, se non per peggiorare.

In quel documentario dedicato a un monumento dello sport mondiale, al secolo Paolo Maldini, ci sono molte cose su cui meditare. La dittature delle curve, il trattamento poco onorevole che una grande società ha riservato alla sua bandiera: se volete capire cosa non funziona nel calcio italiano, guardate quella puntata di Sfide. La parola precisa la dice a un certo punto Alessandro Costacurta, raccontando di quell’insperato successo nello scudetto del 1999, spiega che, alla fine di un’incredibile, veramente improbabile rimonta sulla Lazio, lui e Maldini si abbracciano come non avevano mai fatto prima. Due che giocano insieme da 13 anni, hanno vinto tutto, hanno vissuto già tutte le amarezze di delle sconfitte che bruciano ma anche le soddisfazioni di una vita fortunatissima, si abbracciano quella volta come mai prima. Perché? Perché quella vittoria li ripagava delle loro convinzioni, spiega Billy Costacurta, e della decisione di “non parlare coi tifosi”. A chi non conosce un po’ le perversioni degli stadi italiani, questa frase suona sinistra, o semplicemente incomprensibile. Fa riferimento, Costacurta, alla dittatura che negli anni, in molte società calcistiche, probabilmente in tutte, hanno imposto le curve, gli ultras. Poche centinaia di tifosi esagitati, che allo stadio fanno casino e sparano fumogeni, che hanno sempre goduto di occhi di riguardo (sconti e regole meno ferree) da parte delle società, hanno piano preteso (e ottenuto) di essere riconosciuti come interlocutori necessari per le squadre. I calciatori, se perdono una partita, devono spiegarsi con loro: non con chi eventualmente gli paga lo stipendio (la proprietà), li allena (il tecnico/amministratore delegato), no: con gli ultrà. Maldini dice di no, e non è da solo: lo dice prima e lo dirà dopo – lo spiega sempre Sfide – quando i soliti quattro ultrà gli chiedono spiegazioni sull’incredibile, davvero sfortunata, sconfitta della Finale di Istanbul, contro il Liverpool, nel 2005.

Lui dice no, e loro lo fischieranno nell’ultima partita giocata, da capitano, nel suo stadio, a San Siro. Direte voi: chissenefrega, una storia di calcio che riguarda solo voi tifosi milanisti, o al massimo voi tifosi. Sarebbe vero, non fosse che Paolo Maldini non ha mai avuto, dal Milan, un riconoscimento nella società, eppure qualcosa potrebbe sicuramente dare, alla squadra e alla società. In compenso un management grandemente superato dai fatti, pensate al geometra Adriano Galliani, è ancora saldo in sella. Chi frequenta curve e bar rossoneri giura che Galliani è gradito agli ultrà. Galliani sì, Maldini no. Piccole metafore di come finiscono male anche le migliori famiglie.

La puntata di sfide dedicata a Paolo Maldini

 

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