Calcio

Piccole calciatrici crescono

17 Giugno 2019

Ha iniziato a calciare a sette anni, e non ha mai mancato più di una settimana di partite e allenamenti: i piccoli cedimenti li ha consumati e vinti nella sua stanzetta, morbido ring dove si affrontano volontà e umiliazione. Perchè per praticare uno sport dove sei l’unica femmina e le insinuazioni, mute o palesi, ti si incollano addosso e scavano, devi avere dentro lo spirito di un samurai.

Sua madre pensava e sperava che fosse un’esperienza di passaggio. Legittimo augurarselo: per quella donna ‘il pallone’ era sempre stato uno sport alieno. Ancora oggi, dopo centinaia di partite viste non ha capito la regola del fuorigioco. Però è presente, ormai allineata orgogliosa alla passione profonda della figlia; fa comunella con gli altri genitori sugli spalti, incita, ascolta, ride, ma evita qualunque commento tecnico. Il padre ci ha messo poco. Un maschio appena vede che salti un avversario con disinvoltura, o segni dal limite dell’aria con un tiro a giro dimentica al volo che sei una femmina. Sei come un angelo: non hai sesso.

Fino ai 12 anni è stata l’unica donna in una squadra maschile, in campetti d’oratorio di terra e sassolini, sette contro sette, i pochi genitori in fila sulla linea laterale. Lo zio andò a vedere la prima partita con un’idea più vicina a quella della cognata. E poi andò a vederne un’altra. E poi un’altra ancora. Un Natale arrivò a regalarle una coppia di scintillanti parastinchi.

La ragazzina calciava con poca forza, ma era un calcio naturale. Quello che nasce con te. Il dono spontaneo di Eupalla. La mettevano all’ala destra, era tutta nervi, boccoli biondi, un fuscello che partiva leggero e imprendibile. I maschietti si sentivano sminuiti da questo avversario gentile e così i primi minuti non dimostravano troppo impegno. Erano costretti a prenderla sul serio dopo che li aveva saltati netto un paio di volte, o era quasi arrivata in porta con il pallone. A quel punto usavano la forza fisica (nei limiti dell’età, ma sempre maschi sono), e a starle addosso quel che bastava a spostarla o a non farla partire. Lei subiva questa differenza di forza. Si sentiva fragile. Si notava un certo timore nei contrasti. Alla platea di pregiudizi fuori dal campo andava ad aggiungersi questa paura fisica. Che diventò alla lunga il sentimento più difficile da domare: perchè era istintiva, ed era dentro, il campo.

Rettangolo di gioco che lasciava con una smorfia di orgoglio e frustrazione. E le guance viola di bambina che ha dato tutto.

Faceva la doccia da sola, nello spogliatoio dell’arbitro, prima di lui.

Oggi ha sedici anni, gioca nelle Under 17 di una squadra di serie A ed è nel giro delle rappresentative regionale. Fa gol. Ne fa tanti. È rimasta quella che palla al piede in velocità ti lascia sul posto, anche se a tratti ha la leziosità degli eletti. E questa sufficienza, insieme alle scorie dell’antica paura fisica, le fanno perdere qualche contrasto decisivo. Ma se alza la testa e la porta è nel mirino, calcia con il telecomando.

Studia quando basta, sa che deve, ma è intorno a una palla che gira tutta la sua ambizione.

Un calcio più lento, da quello praticato da più di un secolo dai maschi. Perché meno atletico: la morfologia non si può ribaltare. Ma anche più pensato. Sembra che abbiano sempre un’elaborazione in testa, lo si legge nell’espressione del volto, con o senza pallone: stanno pensando cosa fare, cosa succede, cosa succederà. Sono tutte dentro la partita. Non si distraggono.

Di certo un calcio più silenzioso. In queste ragazze le imprecazioni sono rarissime, e brevi, sommesse. Così come le lamentele verso l’arbitro. Eppure su ogni pallone si buttano come se fosse l’ultimo, entrano decise, spesso in scivolata, e il verde brillante delle praterie sintetiche lascia sulle gambe depilate ricordi bruciati. Hanno sguardi di sfida, ma senza astio. Non ci sono nemiche. Avversarie che ti stanno sulle ovaie, certo, si vede, ma è come se l’essere donne le abbia allenate alla trincea, e quindi a riconoscersi complici, sempre. La sua espressione più alta, il calcio femminile non la raggiunge nella giocata eccezionale del singolo, che cambia le partite, ma nella solidarietà del passaggio; nel rispetto delle regole, comprese le tattiche; nella mancanza di primedonne, paradossalmente. Nella totale abdnegazione: le ragazze si danno, non si specchiano. E hanno quasi tutte la coda. E le code sventolano. Regalano la suggestione della corsa animale oltre il recinto.

E queste ragazze guardano i Mondiali in Francia immedesimandosi, non da groupies di qualche calciatore.

E con loro ci saranno quei genitori che hanno sposato l’ambizione sportiva delle figlie. Con una tenacia ancora più grande della loro. Se una ragazza ha la dolce malattia del football la devi portare dove può giocarlo. Dovunque sia. Ed è molto facile che sia lontano. Le società sono pochissime, non migliaia come per i maschi, che prendi la borsa e vai al primo campo nei paraggi. E questi genitori hanno gli allenamenti della figlia in agenda quotidiana, tutti i weekend blindati, capitano trasferte di centinaia di km per andare a fare un quadrangolare, e lo spostamento è nella buona volonta delle auto familiari. Questa dedizione alla causa fa la differenza. Costruisce il futuro. C’è un concorso di ostinazione enorme, una forma di eroismo, dietro ognuna di quelle ragazze italiane che si stanno giocando in Francia l’Olimpo dell’altra metà del pallone.

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