Calcio

Il giorno della Tripletta

10 Dicembre 2020

Militare a Padova. Trasmettitore gruppi elettrogeni. Anche se non ne ho mai visto uno. Solo guardie. Ho fatto solo guardie. Ogni mese poi la mazzata: una settimana piena, in Tencarola, parola funesta. Doveva essere una specie di deposito. Forse armi. Forse altro. Chissenefregava. Non c’era un senso a nulla. Eravamo una decina, le due ore di guardia si alternavano al servire cibo vassoio, ordine e pulizia, branda. Branda, forever. Vita da larva. Armata.
In garitta, avevo di fronte solo campagna, che si spegnava sempre in foschia.  I minuti riempiti dall’espediente a portata di mano, dalle sigarette, in casi rari e fortunati nello stralunamento da farcitura. Il nemico era soggetto impossibile anche solo da immaginare. La guardia era giusto una resistenza. Al freddo. E al tempo morto.
Per cui. Quando in caserma, Pierobon, partì una selezione per formare una squadra di pallavolo mi presentai a testa bassa, convinto: dovevo scappare da quella routine esistenziale. La formazione del V Comiliter avrebbe partecipato a un torneo nazionale, con sede a Palermo. Io al pallone ci parlavo coi piedi, ma con Dario (Drago, per la mitologia) dai 17 ai 19 anni (partii con il secondo scaglione 82) ci eravamo ostinati all’oratorio dove c’era un campo di pallavolo. E il genere femminile, motivazione trainante. Si trattava comunque di una sfera, ne conoscevo gli umori, e Dario era un partner perfetto: ossessivo, e voleva vincere. Imparai con lui un discreto palleggio e un bagher sufficiente, del mio ci misi un’agilità e un istinto da scimmia.
Insomma, riuscii a entrare nei dodici che partirono per Palermo. Con il mio 1,73 l’unico ruolo al quale potevo aspirare era l’alzatore e lo dissi fiero e subito: Sono alzatore. Non esisteva ancora il libero, l’uomo di gomma,  altrimenti mi sarei candidato. Quell’affermazione spavalda e consapevole: “Sono”, fece scena. Ma a spingermi in Sicilia furono soprattutto gli altri aspiranti, tra i quali non lampeggiavano fenomeni.  Arrivammo penultimi. Giocai la metà delle partite, e l’unica che vincemmo ero in panchina. Fosse stato calcio la panchina e la presunzione mi avrebbero incendiato il culo, ma in quel momento giocare era l’ultimo dei miei interessi. Ero a Palermo. Due settimane. Solo quello contava. Alloggiavamo in un villaggio, tipo olimpico, senza alcun obbligo di divisa, zero appelli, adunate, controlli. Unica presenza dovuta, la partita. Passavo dal lucidare anfibi e fucile,  allo struscio del lungomare. Due settimane da ricordare, come quelle che cantava Fred Bongusto, il preferito di mio padre. Mi muovevo in autobus, alcuni giorni a finestrini sigillati per lo scirocco, che sa davvero di deserto. Mangiavo spesso nella mensa del villaggio, libero selfservice, che rispetto alla caserma padovana sembrava la cucina di mia nonna.  E feci amicizie easy, non militari. A Mondello mi invaghii di una giovane di buona famiglia palermitana. Giorni di solo baci e palpeggi. Oltre a panelle, polpo, Dreher. Era tanto bella e lucida, quanto io ero soprattutto arrapato. Le piacevo, ma non mi prendeva sul serio. Guardava lontano. Chissà dov’è arrivata.
La sera di Italia Brasile finii in un appartamento scrauso, in città. Era una compagnia di ragazzi della mia età, conosciuti la sera prima in Piazza Pretoria, sotto la fontana.
C’erano un vecchio televisore al centro di una stanza, e un tavolone. Non trattengo altro dell’arredamento.
Al primo gol di Paolo stavamo ancora ingoiando una pasta corta al pomodoro, il secondo esplose come una rivelazione: abbracciavo come fossero fratelli di sangue una manciata di sconosciuti. La tripletta poi, ci consegnò al delirio.
Ricordo solo le strade invase. Grosse bare portate a spalla, ricoperte della bandiera del Brasile: una squadra di marziani, sconfitta dalla banda del signor Rossi. Vinerie di una sola vetrina aperte tutta notte, mescevano gratis, Zibibbo. Un sostantivo che contiene zucchero e ironia. Della sorte. Suprema. Una felicità alcolica, improvvisa, di tutti. Una festa della Liberazione. Ma anche della resurrezione. A Palermo ho vissuto il più grande e disinvolto calore umano. E ho assistito al primo miracolo della mia vita. Si chiama Paolo Rossi. All’eterno presente.

 

 

 

 

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