Calcio
Messi e Ronaldo: la rincorsa del campione
Ci sono alcune rivalità, nel mondo dello sport, in cui il mito prende il sopravvento sulla realtà e l’esagerazione trasforma uomini in leggende. Coppi e Bartali, Muhammad Ali e George Foreman, Magic Johnson e Larry Bird: sarà perché gli eroi nella fantasia son tutti giovani e belli, ma viene facile lasciarsi andare alla poesia o al lirismo che non ha paura di apparire stucchevole.
Così, dopo la lettura davvero stimolante delle due biografie di Leo Messi e di Cristiano Ronaldo, entrambe scritte dal giornalista Guillem Balague, un confronto tra i due giganti del calcio contemporaneo si rende necessario. E, perché no, educativo.
Già il modo in cui sono state scritte le due storie è rivelatore: una, quella della Pulce, è una biografia autorizzata. L’altra, invece, è scritta senza aver coinvolto Ronaldo, il che mostra subito una differenza di carattere più marcata. Eppure mi sono fatto l’idea, a mano a mano che le pagine scorrevano, che il paradosso dei due campioni stia anche qui: l’argentino è un leader ben voluto dai suoi compagni, personaggio positivo e silenzioso; il portoghese, invece, a metà tra il tamarro e l’arrogante, recita il ruolo del bad boy, perennemente in lotta con se stesso e con il prossimo.
Ciò nonostante, tra le righe di queste storie di calcio, il personaggio più umano mi sembra proprio quello di Cristiano, mentre Messi è come distante, anche e forse di più proprio nel momento in cui, nel libro a lui dedicato, dialoga con il giornalista.
Nemici e rivali: per qualche tempo Messi è stata la vera ossessione di Ronaldo, incarnandone la nemesi perfetta. Eppure l’evoluzione del ragazzo portoghese si vede anche da questo: con il tempo ha saputo prendere le misure all’avversario, riconoscerne la grandezza. Negli ultimi anni lo ha addirittura emulato, diventandone in qualche modo allievo, con un maggiore coinvolgimento nel gioco di squadra e la maturazione di un rispetto profondo verso Leo.
Messi, invece, è come lontano: nelle pagine di Balague non rimane che affidarsi alle parole ammirate del mentore Pep Guardiola: “Messi è una macchina perfetta”.
Una macchina, appunto. C’è qualcosa di vagamente disumano nel talento argentino.
Non so se ci rendiamo conto del fatto che due tra i più grandi calciatori di sempre si siano trovati a competere nello stesso periodo. Di più, nello stesso campionato. Di più ancora, tra le squadre che se lo contendono da sempre: è un’abbondanza difficile da cogliere in tutta la sua unicità.
Noi siamo tra coloro che racconteranno a figli e nipoti di Leo e Cristiano, esattamente come i nostri nonni e padri ci hanno parlato di Pelè o Maradona.
Il campo e i dati parlano di una rivalità che, già nelle statistiche, rivela la necessità dell’uno per la grandezza dell’altro.
Nelle scienze comportamentali, è noto quello che viene chiamato Tiger Woods effect: sostanzialmente, è quel fenomeno per cui ci si chiede quanto giocare accanto a una superstar impatti sulla performance del giocatore normale. Una ricercatrice ha studiato le partite di golf professionistico, trovando che, quando il dominatore incontrastato di anni fa (Woods, appunto) calcava il green, i giocatori di medio livello peggioravano la loro prestazione, quasi schiacciati dalla sua grandezza.
Ma che succede a una superstar quando ha di fronte un’altra superstar?
Qui la questione è più complessa, anche perché la rivalità tra Cristiano Ronaldo e Messi non è quella tra Gimondi e Merckx.
È più quella tra Merckx e Merckx.
Sono due cannibali che, da più di dieci anni, tengono un ritmo che sarebbe pazzesco per qualunque altro giocatore umano, in volata perenne su un traguardo che continuano a spostare al prossimo trofeo.
Il grafico mostra la media goal per partita dei due campioni, dal 2002 a oggi. Messi è necessario a Ronaldo e Ronaldo lo è a Messi, perché i due si alimentano della forza dell’altro.
Non potrebbero essere più diversi e più simili.
Uno incarna il calcio della fantasia e dei limiti (di un fisico che ha dovuto essere integrato da una cura ormonale per garantirne una crescita normale); l’altro quello della potenza e della perfezione.
Messi si sente parte di una squadra e ha bisogno dei suoi compagni per esprimersi al meglio. Ronaldo è l’emblema dell’egoismo e della soluzione individuale.
Eppure entrambi sono accomunati da un’infanzia finita troppo presto, o forse mai.
A 12 anni il portoghese viene ingaggiato dallo Sporting Lisbona e, suo malgrado, deve imparare a badare a se stesso e a fare da solo, sviluppando un’autodisciplina e una forza di volontà che sono il suo vero asset.
Alla stessa età Messi, in piena crisi sistemica dell’Argentina, lascia con tutta la famiglia il paese, perché il Newell’s Old Boys non voleva pagare le cure ormonali necessarie alla sua crescita: è allora che gli si spalancano le porte della cantera blaugrana e della sua sfolgorante carriera.
Un’altra curiosa vicenda li accomuna: entrambi sono stati molto vicini a vestire la casacca nerazzurra.
Cristiano Ronaldo era praticamente dell’Inter quando Suarez segnalò il suo portentoso talento a Massimo Moratti. Il presidente, però, decise che non era il caso di rischiare (l’interista che è in me tace per misericordia).
Messi, appena vinto il mondiale under 20 con l’Argentina, ebbe dei problemi burocratici che ne impedirono lo schieramento nella Liga per qualche mese. A 3 giorni dalla firma con i nerazzurri, quando tutto sembrava ormai pronto, il Barcellona gli fece firmare un nuovo contratto.
Adulti sin da subito, eppure perennemente bambini: è molto fanciullesca, in entrambi i giocatori, l’incapacità di accettare la sconfitta, il pianto dirotto in cui crollano dopo avere perso una partita o quando non riescono a lasciare il loro segno sul match.
C’è un libro di Malcolm Gladwell, Fuoriclasse, in cui la domanda è quella che anima studiosi ed appassionati da secoli: perché il genio diventi genio, serve più il talento o l’abnegazione?
Proprio una frase di Gladwell affronta la questione in termini biologici: “La quercia più alta non è tale soltanto perché nasce dal seme più resistente; lo è anche perché nessun altro albero le ha nascosto la luce del sole, il terreno circostante era fertile e profondo, nessun coniglio le ha rosicchiato la corteccia quand’era un arboscello e nessun taglialegna l’ha abbattuta prima che si sviluppasse”.
Machiavelli avrebbe chiosato con: fortuna e occasione.
Già, perché colpisce, nella storia dei due fenomeni, anche quella di chi rimane dietro le quinte, i giocatori che non ce l’hanno fatta, nonostante il talento li avesse baciati più o meno allo stesso modo: è il caso di Quaresma per la carriera di Cristiano Ronaldo e di Victor Vazquez per quella di Leo Messi.
Ma questa è un’altra storia mentre noi preferiamo continuare quella già iniziata: Balague, nel suo libro su Ronaldo, si sofferma sul modo di esultare del portoghese, che spesso indica con la mano il terreno.
Messi, invece, alza il dito verso il cielo.
Viene in mente, per scomodare un altro genio, la Scuola di Atene di Raffaello, con Aristotele e Platone, al centro dell’affresco, colti proprio nei due gesti speculari. Platone indica il cielo e il mondo delle idee; Aristotele il terreno e la realtà dell’esperienza.
E allora eccomi al punto da cui sono partito: più si entra nella storia di Messi e Ronaldo e più mi sento vicino al secondo e non al primo.
Due diverse filosofie, appunto, due modi di vedere il calcio speculari e necessarie insieme.
Messi è platonico là dove il calcio diventa idea pura. Leo non può vivere senza il pallone e in campo si astrae, paradossalmente, nella sua perfezione di giocatore. Gli allenatori che lo hanno avuto in squadra parlano di un campione che non ha una visione del campo più ampia dei suoi compagni: lui, proprio, intuisce l’evolvere dell’azione come nessuno e fa sempre il movimento giusto.
Guardiola lo rimproverava dicendogli: “Leo, non devi dimenticarti che sei più bravo degli altri” quando l’argentino se la prendeva perché aveva ricevuto un passaggio sbagliato.
Messi è il perno della squadra ed è amato dai suoi compagni, ma è solo, maledettamente, nel suo rapporto ossessivo con il calcio. C’è chi ha tirato in ballo la teoria dello stato di flusso che, in psicologia, descrive un livello di concentrazione assoluto per cui, chi riesce, si immerge a tal punto in un’attività da trasformare l’esperienza in godimento. Estasi pura.
È una sorta di trance agonistica che trasforma la Pulce in giocatore leggendario, ma anche disumano.
E la sua biografia, quindi, è densa di passaggi in cui Cesc Fabregas ricorda i periodi delle giovanili in cui pensava che fosse muto. Guðjohnsen diventa il suo migliore amico in Catalogna pur non capendo una parola di quel che dice. Lo scrittore Casciari è forse la testimonianza più efficacemente crudele: nel visionare un filmato in cui Leo Messi resiste ai tackles degli avversari, senza aprire bocca e senza perdere di vista il pallone, l’autore argentino rivela di avere visto lo stesso sguardo solo una volta nella sua vita: negli occhi del suo cane Totin quando gli viene lanciata la pallina e il mondo diventa soltanto il suo rincorrere la stessa.
Edoardo Galeano condensa il platonismo di Messi in una splendida frase: la Pulce è un giocatore incantevole perché fa cose incredibili con la naturalezza di un bambino. E lo fa perché “Messi non sa di essere Messi”.
Dall’altro lato, invece, Ronaldo indica il terreno di gioco quando festeggia una rete e in lui, infatti, prevale un aristotelismo empirico dettato dall’urgenza di riconoscere se stesso nella vittoria.
Cristiano è cresciuto per le strade di Madeira, giocando tra i marciapiedi dei quartieri poveri. Costretto sin da subito a contare sulle sue sole forze, ha fatto tesoro del talento costruendoci sopra la costanza. Quello che rende Cristiano umano è la sua sfida con se stesso, non astratta ma fatta di carne e sangue. Ronaldo è diventato un campione soprattutto perché ha voluto diventarlo a ogni costo: allenandosi più degli altri, provando e riprovando in modo maniacale punizioni e tiri da tutte le posizioni del campo; migliorando la resistenza del suo fisico con dedizione e disciplina. Potrà stare antipatico, ma la capacità di autocontrollo di CR7 è impressionante: una dieta rigidissima, una vita, a dispetto delle voci, da atleta serio.
E nessun vero mentore su cui poter contare, salvo quell’Alex Ferguson che ne ha gestito la grandezza.
Messi, invece, oltre al padre manager, ha prima avuto in Rijkaard l’allenatore in grado di valorizzarne il talento e, poi, ha trovato anche un Socrate in squadra nella figura di Ronaldinho. Non è da tutti ricevere l’accoglienza che il campione brasiliano riservò alla Pulce: ancora oggi, Leo riconosce che deve molto a Ronnie, del quale ha emulato gesta tecniche e comportamenti meno esemplari fuori dal campo. La grandezza dell’allievo è stata nel fermarsi prima di bere anche lui la cicuta del vizio: Leo Messi è diventato campione quando si è preso sulle spalle il Barcellona e l’eredità del brasiliano.
Ronaldo, dunque, appare umano troppo umano. E forse questo si vede anche dalla popolarità nei social networks: qui non c’è partita tra il campione portoghese (con più di 110 milioni di likes su Facebook e un profilo Twitter altrettanto seguito) e l’argentino, distanziato di diversi milioni e mai così personaggio mediatico. Forse è anche questo che lo tiene distante dai suoi tifosi argentini. Forse è anche questo che mi rende più comprensibile il portoghese: Ronaldo ha bisogno dell’affetto dei tifosi e la sua generosità è almeno pari all’arroganza che traspare sul campo.
Messi è difficile da comprendere: non è la sindrome di Asperger citata da Romario, ma la personalità sfaccettata di un genio ossessionato proprio dalla sua genialità. La Pulce è anche un campione di Play Station ma, noiosamente, anche in questo caso lo è nel gioco del calcio. E’ come se non potesse esprimersi altrimenti: addirittura, non ha neppure voluto dire ‘Thank you’ alla consegna del Pallone d’oro perché non si sentiva sicuro del suo inglese.
Una bella sintesi di questo scontro tra titani l’ha data un giornalista spagnolo, quando ha detto che, al termine di un incontro, se si spegnessero le luci, Ronaldo andrebbe a casa a prepararsi per l’allenamento del giorno dopo, mentre Messi continuerebbe a giocare al campetto con gli amici, con la stessa intensità di una finale di coppa del mondo.
Come che sia, siamo di fronte a due giganti. E mi piace terminare l’articolo con due loro goals, tra i tantissimi.
Punizione Manchester United – Portsmouth
Pallonetto Argentina – Messico
Sono due goals che ci servono proprio a concludere. Perché sono bellissimi e naturali. E perché Dio sta nei dettagli.
Quelli che noi non vediamo.
Il gesto tecnico di un missile da 40 metri e di un pallonetto impossibile si sciolgono nella bellezza del momento, ma dietro di essi, per entrambi i campioni, c’è lavoro maniacale.
Un’altra leggenda del calcio, scomparsa proprio in questi giorni, diceva in intervista che chi guarda le partite di calcio da amatore tende a sottovalutare il ruolo dei dettagli. Cruyff fa l’esempio della Formula 1: se qualcuno chiedesse a uno spettatore di riconoscere la differenza tra le gomme dure e semidure, nella maggior parte dei casi troverebbe uno sguardo smarrito. Eppure sono proprio i particolari a fare la differenza tra una vittoria e una sconfitta.
E a riconciliare le due filosofie diverse nell’unica sintesi possibile: due campioni immensi che fanno bene al calcio.
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