Calcio
Memoria e cronaca di uno spavento su un campo di calcio
Il 22 novembre di 40 anni fa, quando Giancarlo Antognoni si scontrò con Silvano Martina, si fratturò il cranio e subì un arresto cardiaco, io tifavo Juventus. A 14 anni, giocavo in uno dei mille campionati giovanili di Firenze e proprio la stagione 1981-82 si stava rivelando una delle mie migliori. Indossavo la maglia n. 10, proprio come il capitano dei viola, cui di frequente venivo – se si può dire – accostato. Più che di elogi (per la tecnica, l’eleganza e l’abilità nel lancio lungo che possedevo), si trattava di aspre critiche (per la mia mancanza di grinta e per il rendimento altalenante).
Il giorno che Antognoni quasi morì su un campo di calcio, ero uno di quegli ossessionati ben descritti da Nick Hornby in “Febbre a 90°”: il calcio scandiva il tempo della mia vita e lasciava tracce profonde nella mia psiche. Tanto per dire, ricordo da bambino il trauma sofferto quando seppi che Luciano Re Cecconi, la promettente stella della Lazio, era stato ucciso dopo aver finto una rapina nel negozio di un amico gioielliere; rammento nitidamente il coacervo di speranza e apprensione nelle ore precedenti la prima vittoria continentale della Juventus nella Coppa UEFA del 1977, o l’infinita tristezza provata quando Roberto Bettega si ruppe il ginocchio contro l’Anderlecht sempre nel novembre 1981; conservo ancora la memoria minuziosa dell’estasi per la conquista della Coppa del mondo nel 1982 o della disperazione dopo che la Juventus lasciò la Coppa dei campioni all’Amburgo.
È quasi superfluo aggiungere che, come molti miei pari, sognavo un giorno di ricalcare le orme dei miei idoli. Per quanto indossasse il colore meno compatibile col bianconero, ammiravo Antognoni e cercavo di imitarlo. Tuttavia, proprio in quell’anno, Antognoni guidava l’assalto contro la mia squadra del cuore in uno dei campionati più serrati e incerti mai disputati. Inoltre, avere un mucchio di amici che tifavano per la Fiorentina, mi rendeva la vita un inferno e aumentava il mio astio per i gigliati.
Il giorno che Antognoni quasi morì su un campo di calcio, avevo dunque i miei personali conflitti di interesse. Per questa buona ragione, penso oggi, non conservo di quell’incidente praticamente nessun ricordo. Al contrario, a Firenze, tutti quelli che hanno l’età giusta sono in grado di dire cosa facevano e cosa sentirono in quella triste domenica di autunno. Con le dovute proporzioni, è un po’ come chiedere a un americano cosa stava facendo quando uccisero JFK o quando le Torri gemelle furono abbattute. Chi pensa che si tratti di una mera iperbole retorica, farebbe bene a cercare di capire cosa Antognoni rappresenti ancora oggi per l’appassionata ed esigente tifoseria viola, per i molti fiorentini che cedono alle lacrime se li si invita a ricordarlo.
Firenze se ne innamorò sin dalla prima volta che, con l’andatura regale, la testa alta e l’ampia visione di gioco, scese sul terreno di gioco in maglia viola, e cominciò a riverirlo come uno dei tesori più preziosi della città, al pari di un dipinto di Botticelli o di un capolavoro di Michelangelo. Con i suoi morbidi boccoli dorati, “Antonio”, come da subito venne chiamato, mostrò immediatamente il talento cristallino del “ragazzo che gioca guardando le stelle”, secondo la lirica definizione del giornalista Vladimiro Caminiti, il cronista di “Tuttosport” che lo vide debuttare in Serie A da diciottenne nell’ottobre 1972. Negli anni seguenti, Antognoni ricambiò l’amore di Firenze e dei fiorentini con una dimostrazione di incrollabile fedeltà, respingendo a più riprese l’insistente corte di Gianni Agnelli, che lo voleva nella cabina di regia della sua Juventus.
Quarant’anni dopo il giorno in cui Antognoni quasi morì su un campo di calcio, ho pensato pertanto di chiedere ai fiorentini di rievocare le loro sensazioni di allora. Quelli che erano alla partita, specialmente se in curva Fiesole, a causa della distanza, non ebbero l’esatta percezione di quanto accaduto, e in primis protestarono per il mancato calcio di rigore. A mutare subitaneamente il quadro psicologico fu l’enfatica e quasi isterica reazione del libero genoano Claudio Onofri, che con le mani nei capelli corse verso la panchina, urlando “È morto! È morto!”. I sanitari si precipitarono sul terreno di gioco e un silenzio profondo e irreale avvolse lo stadio: si potevano udire dagli spalti le grida concitate di chi si adoperò per rianimarlo, del medico sociale rossoblu Pierluigi Gatto che eseguì il massaggio cardiaco e del massaggiatore viola Ennio “Pallino” Raveggi, che praticò la respirazione bocca a bocca.
Molti di più erano invece a casa, o fuori per svago, o a lavoro, e avevano la proverbiale radiolina incollata all’orecchio per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. L’assenza di immagini ridusse il loro shock ma aumentò l’ansia per l’incertezza circa le condizioni di Antognoni, che intanto negli spogliatoi aveva ripreso conoscenza grazie a un’iniezione di cardiotonico.
L’altoparlante dello stadio e i giornalisti alla radio diffusero la rassicurante notizia e quando il capitano giunse all’ospedale di Careggi già lo attendevano schiere di tifosi in ansia, nonché gli immancabili giornalisti, che addirittura gli misero un microfono sotto al naso: «Adesso mi sento meglio, ho soltanto un po’ di mal di testa……», sospirò debolmente. Nel tardo pomeriggio, a “90° minuto”, tutti poterono vedere lo scontro da diverse angolazioni. I filmati confermarono la prima idea che molti si erano formati a caldo: secondo loro, il portiere del Genoa si era reso colpevole di un fallo criminale. Nei giorni seguenti, ci fu chi volle dare un seguito giudiziario a questa impressione. Presente in tribuna, il procuratore della Repubblica Enzo Fileno Carabba aprì un fascicolo per appurare se la condotta di Martina potesse essere sanzionata per lesioni personali. Affermò che non aveva ancora “digerito” il tremendo fallo di Romeo Benetti che di fatto mise fine alla carriera di Franco Liguori nel 1971 e concluse lapidariamente: «Non esiste alcuna legge che stabilisca che certe azioni di gioco debbano restare impunite. Spetterà ai miei collaboratori stabilire se c’è stato reato e di che tipo»[1].
Il procedimento partì con gli interrogatori di Gatto, del vice-presidente viola Giorgio Morichi, dell’arbitro Paolo Casarin, del difensore Onofri e dello stesso Martina, ma si concluse con un nulla di fatto, poiché Antognoni dichiarò prontamente che si era trattato di uno scontro fortuito, per il quale Martina non poteva essere incolpato.
Le due fratture alla testa furono trattate chirurgicamente dal primario Pasquale Mennonna, che divenne in breve una celebrità mediatica, soprattutto per i moltissimi appassionati che si riunivano quotidianamente fuori dall’ospedale in trepida attesa. Non era il tempo degli smart-phone, né dei social network, ma le notizie circolavano ugualmente. Gli infermieri e gli altri operatori ospedalieri informavano coloro che stazionavano fuori dal reparto di neuro-chirurgia, e questi rilanciavano gli aggiornamenti chiamando amici, conoscenti e parenti: così la città veniva tenuta al corrente in tempo reale.
Col passare dei giorni, “Antonio” migliorò rapidamente, sorprendendo i dottori per le sue capacità di recupero, benché molti rammentino lo spavento provocato da uno dei bollettini di Mennonna, in cui ci si riferiva al “signor” Antognoni, senza fare menzione del suo status di “calciatore”, il che era stato sufficiente a spargere timori sulla sua futura carriera! [2].
Cominciò la lunga teoria delle visite e dei telegrammi. Diego Maradona, in forza al Barcellona, scrisse augurandosi di incontrare Giancarlo ai Mondiali di Spagna [3]. Fu allora che le foto del volto livido ed emaciato di Antognoni divennero di pubblico dominio, al pari della bitorzoluta fasciatura che gli infagottava la testa.
Anche Casarin visitò l’illustre convalescente, recando in dono il pallone di quella sventurata partita: a titolo di buon augurio, specificò. Per quanto Casarin sia tutt’oggi considerato uno dei più valenti fischietti italiani di sempre, i tifosi viola lo accusarono per la sua inazione. L’arbitro si è sempre difeso affermando che la sua attenzione era stata requisita dagli effetti dello scontro, dall’innaturale postura del corpo riverso sul prato, dal volto cianotico del giocatore. Arbitrare, in quei frangenti, gli parve forse inappropriato. Non comminò il rigore, né estrasse il cartellino rosso, o giallo, nei confronti dell’estremo difensore genoano, proprio come successe pochi mesi dopo al Mundial spagnolo, nella semifinale Germania Ovest-Francia, quando Harald Schumacher travolse in uscita Patrick Battiston: il francese perse tre denti e rimase incosciente per qualche minuto, ma l’arbitro olandese Corver ignorò completamente il fallo e fece riprendere il gioco con una rimessa dal fondo.
L’interpretazione di molti fiorentini è ancora oggi molto differente. Secondo loro, Casarin era solo l’ennesimo arbitro vittima della notoria “sudditanza psicologica” nei confronti delle grandi e in particolare della Juventus, che beneficiò alquanto dell’assenza di Antognoni, che fu tuttavia meno lunga di quanto temuto.
Allo scoccare della primavera, il 21 marzo 1982, pur privo della distintiva zazzera bionda sacrificata al bisturi del chirurgo, il ragazzo tornò a guardar le stelle. La curva Fiesole lo salutò con un enorme striscione, dove si poteva leggere: “Forza Antonio! L’inferno è finito, il paradiso ci aspetta”. La conclusione del campionato dimostrò la fondatezza della tesi della “sudditanza psicologica”. Fiorentina e Juventus arrivarono all’ultima giornata con gli stessi punti. I viola erano attesi dal Cagliari, che abbisognava di un pareggio per evitare la retrocessione, mentre l’undici di Giovanni Trapattoni doveva render visita al Catanzaro, già salvo.
Nel primo tempo, il bianconero Sergio Brio stese il centravanti calabrese Carlo Borghi con una gomitata, ma l’arbitro lasciò correre. Una rete di Francesco Graziani fu invece annullata per una dubbia carica sul portiere del Cagliari e a 15 minuti dalla fine la Juventus ottenne un rigore per un evidente fallo di mano. Con la solita freddezza, l’irlandese Liam Brady convertì la massima punizione, dando la vittoria e il ventesimo scudetto ai torinesi.
Dopo la gara, Antognoni non nascose la sua amarezza, notando come alla fine del torneo la Juventus fosse l’unica formazione contro la quale non erano stati assegnati calci di rigore [4]. Come conseguenza diretta del “furto”, i tifosi viola coniarono lo slogan “Meglio secondi che ladri”, cui noi juventini – in fiorentino stretto – imparammo presto a rispondere “Meglio primi che bischeri”.
In estate, l’Italia vinse i Mondiali, ma Antognoni fu costretto a guardare il trionfo del Bernabeu dalla tribuna per un infortunio rimediato in semifinale. Accarezzò l’idea di conquistare lo scudetto anche nel 1983-84, fino a che in un contrasto col sampdoriano Luca Pellegrini si ruppe tibia e perone, un incidente che lo appiedò per un anno e mezzo e di fatto concluse la sua parabola come giocatore di alto livello.
Qualche anno fa, ho avuto l’occasione di intervistare Antognoni. Non potei esimermi dal chiedergli un commento sui molti infortuni e sulla sua decisione di restare sempre fedele ai colori viola, che probabilmente gli costò diversi trofei e un mucchio di soldi. “L’unico 10” replicò serenamente: «Sono stato molto fortunato, ho fatto il mestiere più bello del mondo. Una carriera comincia e finisce, le vittorie vanno e vengono, ma la storia d’amore con Firenze non finirà mai».
Uno dei più noti luoghi comuni del calcio italiano è quello legato ai suoi indomiti faticatori, ai suoi mediani instancabili che vivono all’ombra dei più talentuosi registi e trequartisti, cui devono recapitare la palla che sradicano dai piedi degli avversari. Giocatori come Giovanni Lodetti, Beppe Furino, Gabriele Oriali e Gennaro Gattuso sono quasi immancabilmente inseriti nella categoria dei “generosi”, che designa per l’appunto quei calciatori sprovvisti di classe e grazia, che tuttavia svolgono con encomiabile altruismo il necessario “lavoro sporco” di contenimento, recupero e spinta di cui ogni squadra ha bisogno. Mentre parlavo con Antognoni, ebbi la conferma di un pensiero che covavo da tempo sulla sua singolare peculiarità di calciatore. La bellezza apollinea, l’eleganza eterea, la facilità di gioco avevano impedito a tutti di riconoscere la sua vera caratteristica preminente, che era proprio la generosità. La generosità espressa dall’ininterrotta dedizione a una sola bandiera sportiva e dalla piena disponibilità ad accogliere e ricambiare la passione di una sola città: il risultato è stato, ed è ancora, il binomio indissolubile fra uno dei più sublimi artisti del pallone e l’eterno splendore dei tesori artistici di Firenze.
[1] Coscia, C., Carabba: «Ho agito perché ho visto», in “La Stampa”, 25 novembre 1981
[2] Curino, L., Cos’è Antognoni per Firenze, in “La Stampa”, 29 novembre 1981
[3] Ciullini, L., Antognoni: «Si deve vivere la partita come una festa», in “l’Unità”, 28 novembre 1981
[4] AA.VV., Almanacco illustrato del calcio 1983, Edizioni Panini Modena, 1982
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