Calcio
Ultras infami, ok. Ma ieri all’Olimpico lo Stato dov’era?
Non mi ha indignato quello striscione contro la mamma di Ciro. Non, almeno, la parte meno emozionale di me, che nel caso degli ultras è solennemente maggioritaria, riconoscendo a quei negazionisti (in purezza) di ogni sentimento il valore assoluto dell’irrecuperabilità. Non c’è mediazione possibile né schemi eventuali di interposizione, la linea da seguire, se ancora qualcuno ha qualche legittimo dubbio, è semplicemente la repressione. Ciò che anima azioni e parole di questi ignobili individui è una forma di terrorismo che merita leggi che un tempo si sarebbero dette eccezionali e che si “dedicano” a quei soggetti che attentano al corpo sociale in maniera eversiva. E cosa c’era di più eversivo di quello striscione che sapeva di colpire al cuore introducendo il tema universale di una madre? Tra l’altro, con la solita variante merdosa di quell’«onore e rispetto», che, con un secondo striscione, hanno voluto mettere in carico a un’altra povera sventurata, madre di un figlio giallorosso perso a San Siro addirittura nell’89, con il “merito” ai loro occhi d’essere stata mediaticamente molto più silenziosa rispetto alla signora Antonella.
Saremo lieti se il governo, nelle more della legge elettorale, vorrà dedicare qualche minuto a questo problema ma intanto quello che è successo ieri deve registrare qualcosa di profondamente malato nelle istituzioni. Non ne troviamo traccia sui giornali, pieni, com’è anche giusto, di un sentimento di indignazione che andava sottolineato. Ieri le istituzioni hanno sostanzialmente “lavorato” per gli ultras, perché quelle prodezze potessero avere il giusto riconoscimento mediatico, perché si potesse apprezzare sui giornali del giorno dopo, i giornali della Santa Pasqua, di che pasta orrenda erano fatti. Insomma, le istituzioni si sono poste, come al solito, in posizione di osservazione. Spettatori asettici e non paganti del Male, peggiori attori non protagonisti di una recita molto annunciata, che nessuno si è sentito di interrompere.
Questo “è” il problema: c’era qualcuno sul campo, che magari nella vita è riuscito a scavallare la faticosa collina della terza media, in grado di comprendere socialmente quello striscione, nella condizione di capire che al pari di un insulto razzista quelle parole contro la madre di Ciro potevano colpire le sensibilità di un intero Paese e segnalarci al mondo per le nostre pessime virtù?
In campo c’è un direttore di gara. In questo caso il migliore, l’arbitro della finale Mondiale. Non si poteva avere persona più accorta. In campo c’è anche il rappresentante del prefetto, ci sono plurimi dirigenti delle Forze dell’ordine, c’è tutto un armamentario di legalità che dovrebbe sconsigliare anche solo un sospiro fuori posto. Ma buon Dio, cosa doveva servire ancora al signor Rizzoli per fischiare una semplice pausa di gioco, convocare il rappresentante del prefetto e con lui decidere l’immediata interruzione della partita, da riprendere soltanto nel momento in cui le scritte infami fossero finite in un tombino dell’Olimpico? Naturalmente, sarebbe stato apprezzabile anche il procedimento inverso, con la prefettura che allerta l’arbitro. Invece, nella più frusta delle tradizioni oggi apprendiamo che gli inquirenti stanno visionando le immagini per identificare i colpevoli. Scusate, ma chissenefrega di “visionare le immagini”.
Un atto di terrorismo come quello, che vive sull’immediatezza infame di esporre uno striscione contro la mamma di Ciro, esige una risposta altrettanto immediata e di una potenza cento volte superiore, perché quella risposta si farà immediatamente “simbolo” per tutti di un’organizzazione sociale in grado di percepire certi segnali e di offrire le migliori soluzioni. E invece niente.
Che Paese, cazzo.
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