Calcio
L’UEFA e l’imperativo “The show must go on”, tra pallone e guerra
Pochi giorni fa la UEFA ha comminato una sconfitta per 0-3 a tavolino alla nazionale albanese, rea di aver rifiutato il ritorno in campo durante la partita con la Serbia, valevole per le qualificazioni al prossimo campionato europeo per nazioni che si disputerà in Francia nel giugno del 2016. L’incontro in questione è stato sospeso in seguito a incidenti scoppiati dopo che un drone con vessillo inneggiante all’Albania “etnica” nata dopo la rivolta del 1912 aveva suscitato reazioni non proprio serene nell’entourage serbo. Una tensione aspra che si trascina da quel 1912, o forse dal 1970, quando la comunità albanese ha iniziato a espandersi sul territorio kosovaro a spese di quella serba, una tensione che raggiunse il suo culmine con l’intervento NATO su Belgrado nel 1999. Senza addentrarsi nei meandri di un conflitto complesso e ancora vivo negli occhi di tutti gli europei, viene da chiedersi come un astio abbastanza acido e incrostato come questo sia stato inspiegabilmente ignorato dall’unico organismo continentale che avrebbe il dovere di tutelare il gioco del calcio, laddove per gioco del calcio si intende anche tutto quel corollario di informazioni e di competenze extracalcistiche da applicare in occasione dell’organizzazione di un torneo.
Quante volte si sente parlare di “alte misure di sicurezza” in occasione di manifestazioni sportive? Iniziò tutto più di quaranta anni fa, in quel settembre nerissimo delle Olimpiadi di Monaco, nel 1972. Allora il mondo si accorse di quanto la realtà fosse capace di scardinare quella patina de coubertiniana nella cui retorica troppo spesso lo sport si nasconde, più che farne davvero materia di promozione. Questo se si parla di sport olimpico, ancora più complesso se lo sport in questione è il calcio, la disciplina forse meno “sportiva” tra tutte, che porta con sé bagagli legati col laccio e colmi di cultura, storia, società, una disciplina incapace quasi per genesi a staccarsi dalla sceneggiatura originale e dal contesto. L’Europa si sa è un continente anziano e complesso, difficilissimo da omogeneizzare: le vicende recenti che ci stanno investendo sono lì a confermarlo, e in questa logica era inevitabile che rientrasse anche il nostro amato pallone. In occasione del sorteggio di Nizza dello scorso 23 febbraio atto a comporre i nove raggruppamenti di qualificazione, la UEFA aveva due paletti “politici” ben precisi: evitare l’incrocio tra Armenia e Azerbaigian (per le annose tensioni in Nagorno Karabakh) e quello tra la Spagna e la nuova federazione di Gibilterra, quest’ultima all’esordio assoluto sullo scenario internazionale. Automatico chiedersi perché l’UEFA si mostri così sensibile ad accogliere le istanze spagnole per una vicenda sì complessa ma che ha già affondato le sue principali problematiche all’inizio del XVIII secolo, per poi sorvolare su varie ferite aperte e infette che solcano il continente.
Al netto di tensioni dure ma ormai metabolizzate come quella tra Germania e Polonia o quella tra Russia e Georgia, la zona dei balcani pare in effetti la più trascurata: questo è davvero molto curioso, detto e considerato che quella è l’area che ha ospitato il più atroce conflitto che il dopoguerra ricordi, allungato con la protesi dell’intervento in Kosovo. Il tutto tenendo conto che da quelle parti il calcio è cosa seria, fin troppo (ricordate Dinamo Zagabria-Stella Rossa del 1990?), e che quindici anni dalla fine di un conflitto non sono poi molti, soprattutto se si considera che l’accordo di cessione di Gibilterra dalla Spagna al Regno Unito è del luglio 1713. Senza parlare di Russia e Ucraina, possibile incontro non inserito negli incroci da evitare ma fortunatamente scongiurato, c’è da supporre per accordi taciti, anche perché non vogliamo pensare che sia stata solo fortuna. Altro triangolo al plutonio è quello tra Turchia, Grecia e Cipro, invischiati da anni in una lunga controversia in cui le prime due recitano il ruolo di occupanti e i ciprioti quello di occupati, anche questo ignorato e poi scampato all’ultimo. Poi Serbia-Croazia, Serbia-Bosnia, Irlanda del Nord-Inghilterra.
Logico è che dalla tribuna opposta possano levarsi voci di dissenso che tentino di giustificare questa singolare gestione da parte dell’UEFA dicendo che sarebbe impossibile comporre gironi equilibrati con troppi paletti politici, anche se questa argomentazione cade nel momento in cui ti accorgi che nel 1992 Israele entrò a far parte del massimo organismo calcistico continentale inizialmente nel ruolo di “ospite”, vista l’impossibilità di affrontare qualsiasi compagine mediorientale, posizione poi diventata fissa col tempo. Difficile pensare che dopo esser riusciti a far migrare una federazione da un organismo continentale all’altro, a Nyon non abbiano contemplato la possibilità di evitare invece scontri egualmente caldi. Alcuni pensano per accordi televisivi, altri dicono per pressioni degli sponsor. Ecco, gli sponsor. Almeno tra quelli di Euro2016 non c’è Gazprom, colosso russo che finanzia invece la Champions League, dove troviamo paradossi di dimensione cosmica. Lì c’è lo Shaktar Donetsk, formazione ucraina, a cui è consentito giocare regolarmente a Donetsk nonostante la città da mesi sia cinta d’assedio dall’esercito regolare ucraino, essendo roccaforte dei ribelli. In sostanza la Repubblica Popolare di Donetsk (filorussa) è sotto il fuoco dell’esercito ucraino appoggiato dall’Europa, scuole ed edifici vengono presi a colpi di mortaio, e lo Shaktar Donetsk gioca a Donetsk rappresentando l’Ucraina in una competizione sportiva europea finanziata anche da Gazprom (Russia).
Ciò che emerge da questo gioco lessicale di monicelliana memoria è quindi la spaventosa mole di questioni a cui l’UEFA deve far fronte, un’oberazione perenne nei confronti di partners, creditori, televisioni, tant’è che a volte in questo tourbillon non c’è spazio per contesti sociali e politici. Eppure i tifosi serbi, auto-proclamatisi portavoce di insofferenze, avevano già resa chiara la loro visione durante quell’Italia-Serbia delle scorse qualificazioni europee, trascinando alla sospensione quella partita soltanto per rivendicare la loro intolleranza alla “risoluzione Kosovo”. Quattro anni dopo per tutta risposta arriva l’Albania nel girone, che giustamente si rifiuta di giocare, e si becca uno 0-3 a tavolino. La colpa? Aver avuto paura. La stessa paura che ci prenderà al prossimo sorteggio in qualche patinata città dell’Europa che conta.
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