Calcio
Lo sport può fare l’Europa?
In occasione delle manifestazioni sportive internazionali, un fondo irriducibile di patriottismo si combina con i residui di una remota ossessione e mi spinge a riconoscibili comportamenti da boomer. Mi capita così di sedermi sul divano, premere il tasto del telecomando e consultare le pagine di “Televideo” per accedere alle minime, e pur necessarie, informazioni relative a medaglie, punteggi e classifiche nelle suddette manifestazioni. Al che, se è nei paraggi, mia moglie se ne esce con un immancabile rilievo, a mezza via fra la domanda retorica e il rimprovero: «A che servono Olimpiadi, Mondiali ed Europei, se ciascuno segue soltanto i risultati dei propri connazionali?».
Se è probabile che solo alle mie orecchie di coniuge traspaia nell’apostrofe un evidente fastidio d’impronta femminista, è invece lampante la sottovalutazione delle implicazioni nazionalistiche presenti nella narrazione di ogni confronto agonistico fra paesi diversi. Come argutamente chiosato da Eric Hobsbawm, una comunità immaginata di milioni di individui che non si conoscono fra di loro appare (almeno ai maschi) assai più reale, e comprensibile, quando prende la forma di undici persone in mutande che rincorrono un pallone[1].
Questa banale realtà, ossia l’esistenza di riflessi politici, sociali e culturali nelle competizioni sportive è vera dai tempi degli antichi elleni e non passa giorno che non venga confermata. Solo a titolo di ennesimo e ultimo esempio, è sufficiente ricordare la levata di scudi delle cancellerie continentali contro la Superlega di calcio. Il (per ora) fallito progetto di auto-reclusione dei sedicenti maggiori club calcistici nel recinto dorato di una competizione a loro riservata è stato contestato da diversi punti di vista: si è censurato il ripudio del secolare principio del merito sportivo; si è stigmatizzato il disprezzo con cui sarebbero stati recisi alla radice i legami storici ed emotivi che congiungono le squadre alle comunità di origine; si è osteggiata la logica iper-commerciale dell’operazione, che avrebbe approfondito il divario finanziario fra la supposta élite del calcio europeo e i reietti lasciati ai margini. Non sfugge che le critiche si sono appuntate su tendenze assai risalenti, tutte alacremente nutrite dagli stessi soggetti che si sono veementemente scagliati contro l’ardita mossa dei dodici top team.
Ciò che ha provocato la subitanea e risoluta reazione dei governi, della UE e della UEFA è stato il valicamento di ben precise linee di confine, quelle che delimitano gli spazi statuali e che – come illustrato in premessa – sono ben più visibili quando le molto simboliche selezioni nazionali si sfidano sui più svariati campi di gara. Anzi, come è stato giustamente osservato, l’accantonamento della Superlega ha segnalato l’eccellente stato di salute delle ragioni sovraniste/nazionaliste, addirittura presso la Commissione e il Parlamento europei, la cui mission dovrebbe essere la promozione di tutt’altre logiche, di respiro almeno pan-europeo. L’espressione ubiqua e repentina di tale riflesso nazionalista – forse inconsapevole, ma non meno rivelatore – e l’imminente prima fase finale itinerante del Campionato europeo di calcio, che si disputa cioè sull’intero territorio continentale quasi a tratteggiarne un’unità non più solo geografica, possono dare adito a un quesito di ardua risoluzione: quanto è autenticamente “europeista” l’Unione Europea? Quale che sia l’opinione che si ha del disegno di integrazione continentale, una risposta la si può ricavare anche dallo sport e dalla storia della massima rassegna calcistica per nazionali.
L’Unione delle federazioni calcistiche europee (UEFA) nacque nel 1954. Fino ad allora, le federazioni europee non avevano sentito il bisogno di unirsi, data la pronunciata egemonia che esercitavano sulla FIFA. La decolonizzazione e la diluizione di tale primato nell’esponenziale incremento dei paesi associati al sistema del calcio internazionale, fornirono la spinta decisiva, insieme al particolare clima politico del dopoguerra. L’aspra contrapposizione politico-ideologica fra Est e Ovest, insieme alla necessità di placare i venti bellicisti e di ricostruire il devastato tessuto economico-produttivo, indussero le classi dirigenti occidentali a muoversi nella direzione dell’integrazione. Il 9 maggio 1950, il francese Robert Schuman rilasciò una celebre dichiarazione, oggi considerata la pietra fondante del disegno europeista. Ne scaturì come prima realizzazione la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (1951), con cui Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi misero in comune la produzione delle due materie prime che erano la premessa indispensabile di qualunque sforzo bellico. Nel 1957, seguì la firma del Trattato di Roma e di fatto la nascita della Comunità Europea, sotto l’ombrello politico e atomico degli Stati Uniti. L’aperta opposizione al blocco comunista non caratterizzò invece l’europeizzazione del calcio, dato che alla UEFA si affiliarono dall’inizio 25 paesi, inclusi l’Unione Sovietica e tutte le democrazie popolari collocate oltre la “Cortina di ferro”, che aderirono in massa anche all’edizione inaugurale dei Campionati europei nel 1960, le cui final four a Parigi videro prevalere proprio l’Urss sulla Jugoslavia. Dalla prima Coppa “Henri Delauney” si chiamarono invece fuori Inghilterra, Germania e Italia, con vaghe motivazioni sportive e inconfessate ragioni politiche, visto che il carattere ecumenico della rassegna strideva nel mondo dominato dal contrasto fra Mosca e Washington. Anche la partecipazione dei francesi può essere spiegata politicamente, considerate le velleità di smarcamento dalla Casa Bianca del governo del generale De Gaulle, evidenti nella coeva campagna per la creazione di un’autonoma force de frappe, ossia di un arsenale nucleare sotto il pieno controllo dell’Eliseo.
La UEFA sorse e prosperò come un’entità genuinamente europeista. In breve diede vita a seguitissime competizioni continentali per squadre di club, che tracciarono un autentico spazio europeo comune. Accanto alle radicate identità nazionali, prese lentamente forma il concetto più sfuggente e tuttavia ripetuto e praticato di “calcio europeo”[2], inteso almeno nel duplice senso di caratterizzazione distintiva verso l’esterno (riscontrabile dal 1960 nel confronto annuale della Coppa Intercontinentale fra i campioni d’Europa e i campioni del Sudamerica) e di agone speciale dove vengono richieste doti specifiche per primeggiare (si pensi alle reiterate analisi prestazionali centrate sulle differenze fra i campionati domestici e i tornei internazionali). Nonostante tutto questo, e nonostante il calcio abbia sempre goduto di vasta popolarità e sia sempre stato capace di generare sentimenti di riconoscimento, le istituzioni europee hanno poco o per nulla investito su tale potenziale socio-culturale come motore della costituenda “federazione europea” [3]. Non l’hanno fatto quando i vincoli inamovibili della Guerra fredda impedivano una concretizzazione politica dello spazio comune europeo creato dallo sport, non vi sono ricorse convintamente in fasi di maggior distensione geo-politica o dopo il crollo del Muro di Berlino, né hanno adeguatamente enfatizzato a fini identitari la dislocazione realmente “europea” dell’incombente campionato continentale.
Capi di Stato, presidenti della Repubblica, cancelliere e ministre, che da decenni affollano le tribune degli stadi anche per sottolineare il valore «di un luogo collettivo in cui fare esperienza dell’emozione di stare insieme» [4], sono pur sempre gli eredi dei padri fondatori, che omisero persino di nominare lo sport nel Trattato di Roma. La questione emerse per la prima volta grazie alla Corte di Giustizia, che nel dicembre 1974 stabilì che l’attività sportiva rientrava nel diritto comunitario solo nella misura in cui poteva configurarsi come attività economica. La sentenza Bosman del 1995, disarticolando il consolidato sistema dei trasferimenti e spalancando i campionati nazionali all’invasione dei giocatori stranieri, trasferì nello sport gli schemi e le norme della concomitante globalizzazione neo-liberista. Neanche lo stringato riconoscimento nel Trattato di Lisbona del 2009 della sua «funzione sociale ed educativa» rende giustizia al vasto retaggio valoriale dello sport, ribadendo l’asfittica cifra economicistica e burocratica della UE, già visibile in nuce nella citata dichiarazione di Schuman, il quale aveva rimarcato che l’Europa si sarebbe fatta per la forza irresistibile di concrete realizzazioni successive. Quanto allora sembrò un’oculata dimostrazione di gradualismo funzionalista, trascurava in effetti una delle consolidate conclusioni della filosofia, della sociologia, della psicologia e dell’antropologia, secondo cui la coesione delle collettività umane non è assicurata soltanto dal calcolo razionale.
Non per caso nazioni e sport si erano imposti insieme sul palcoscenico della storia a cavallo fra Ottocento e Novecento, quando giunsero a conclusione e presero avvio processi lunghi di portata epocale. Ardui obiettivi di aggregazione e omogeneizzazione entro i confini degli Stati-nazione furono intrapresi e raggiunti ricorrendo ampiamente a “tradizioni inventate”: i paesi si dotarono di bandiere e inni nazionali, fondarono capitali, strinsero legami autentici o artificiali con gloriose età del passato, disseminarono i luoghi pubblici di statue e monumenti, punteggiarono lo scorrere ininterrotto dei giorni con festività e cerimonie[5]. Lo sport moderno non fu solo fin dal principio metafora e rito, ma si appropriò a sua volta dei simboli creati dalla politica, alimentandoli in un circolo di azione e retro-azione che rinforzò l’uno e gli altri. Il ripetersi a cadenze regolari di eventi e appuntamenti sportivi, con la perpetuazione di convenzioni e cerimoniali, stimolò profondi processi d’identificazione. Il “nazionalismo banale” di Olimpiadi e Mondiali poté agevolmente mutarsi in “nazionalismo caldo” durante guerre o crisi[6], e i primi ad accorgersene per fini non propriamente commendevoli furono gli Stati totalitari della prima metà del XX secolo.
È possibile dunque che le istituzioni europee si dibattano oggi in una contraddizione paralizzante che affonda le proprie radici nel pensiero e negli atti dei capostipiti, che ignorarono il potenziale simbolico dello sport per non confondersi con Hitler, Mussolini e Stalin e fors’anche per snobistica formazione culturale. Nel 1984, la commissione “Per un’Europa popolare”, presieduta dall’italiano Pietro Adonnino[7] e appositamente istituita per rafforzare l’auto-percezione pan-europea fra le popolazioni degli Stati membri della CE, produsse una serie di raccomandazioni, che includevano anche l’organizzazione di eventi sportivi, la promozione di squadre comunitarie, l’uso da parte degli atleti degli emblemi europei. Anche prima delle esortazioni della commissione Adonnino, si erano dati sporadici esempi di selezioni continentali, nel caso delle partite celebrative fra Europa e Resto del Mondo, o fra singole nazionali e Resto d’Europa, nonché in kermesse variamente stabili come i confronti continentali nell’atletica leggera. Casi più recenti annoverano la Ryder Cup di golf, che secondo alcuni ha contribuito a consolidare un senso di appartenenza europea [8]; i Campionati europei di ciclismo, che hanno riesumato la tradizione del Giro d’Europa degli anni ’50 e la meno fortunata Laver Cup di tennis, che nel 2020 non è sopravvissuta al riflesso sovranista degli organizzatori del Roland Garros, i quali, impediti dalla pandemia a svolgere l’Open parigino nella consueta finestra primaverile, lo hanno riprogrammato d’imperio all’inizio di ottobre, sfrattando dal calendario proprio l’ancora esangue e artificioso confronto intercontinentale.
In ultima analisi, la riluttanza o l’inadeguatezza della UE a usare lo sport come veicolo di appartenenza identitaria, ostruisce una delle più promettenti strade verso la fabbricazione di un’idea realmente comunitaria di Europa. Al contempo, il campo resta sgombro per la resurrezione dello Stato-nazione, che non ha perduto la sua capacità di creare immaginario attraverso manifestazioni popolari quali sono le partite di calcio o altri tipi di antagonismo sportivo[9].
Se le nuove generazioni di europei svilupperanno lealtà statuali sovranazionali, allo stesso modo in cui già adesso tifano per campioni e campionesse le cui nazionalità sembrano sfumare in uno sfondo non connotante, dipenderà anche dalla possibilità di affiancare alle identità locali e nazionali delle forme di identificazione di tipo europeista. Il calcio e lo sport sono a disposizione per favorire il processo, poiché come già è stato rilevato addirittura nel 1882 dal filosofo francese Ernest Renan, dati e fatti non bastano a fare una nazione. Ogni collettività può coagularsi intorno a interessi comuni, ma per sopravvivere e crescere ha bisogno di unire corpo e anima, di poggiarsi anche e soprattutto sul sentimento: un’unione doganale – concludeva icasticamente Renan – non è una madrepatria.
Riferimenti biblio-sitografici
[1] Hobsbawm, E., Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, 1991
[2] Tomlinson, A., Young, C. e Holt, R. (a cura di), Sport and the Transformation of Modern Europe, Routledge, 2011
[3] Sonntag, A., Les Identités du football européen, PU Grenoble, 2008
[4] Ibidem
[5] Hobsbawm, E., Ranger, T., L’Invenzione della tradizione, Einaudi, 1987
[6] La teoria del “nazionalismo banale” è citata in Sbetti, N., Quando il gioco fa l’Europa, in “Lancillotto e Nausicaa”, n. 1-3, 2012
[7] I lavori della Commissione Adonnino sono ricordati da Nicola Sbetti durante la conferenza a distanza del Punto Europa Forlì, dal titolo “Other ideas: l’identità europea e lo sport”; ultima consultazione in https://www.youtube.com/watch?v=oJHUMkpRu_g il 10/06/2021
[8] Sbetti, N., Le identità europee nello sport, in “Altre modernità”, n. 14 – 11/2015, Università degli Studi di Milano
[9] Sonntag, A., op. cit.
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