Calcio
La Stampa si ricorda di quando criticava la Juve con Beccantini? Ora c’è Rocca
C’era un tempo, anche molto lontano, in cui la Juventus era antipatica (e sportivamente odiata) esattamente come adesso. Era il tempo degli Agnelli, che poi l’Avvocato racchiuse semplicemente in sé. Per dire, insomma, che in tutti questi anni nei confronti della società bianconera nulla è cambiato e questo fenomeno di cristallizzazione delle avversioni sentimentali, rispetto a tutti i mondi e a tutte le arti che invece sono cambiati in modo superveloce, è qualcosa che dovrà essere letto dagli storici che verranno con un surplus di attenzione. A tutti i feticisti della materia bianconera, almeno quelli che hanno cavalcato le due epoche, non sarà sfuggito il paradossale rovesciamento critico del giornale di famiglia: «La Stampa», che al tempo degli Agnelli manteneva il suo rigore stilistico grazie soprattutto a giornalisti ragguardevoli come Roberto Beccantini. Non sapete che fortuna hanno certe testate – e neppure se ne rendono ben conto – quando possono offrire ai lettori meno “allineati” la credibilità, la serenità di giudizio, lo spirito critico di certi giornalisti, che anche in presenza di un editore per così dire in un minimo conflitto di interessi – è il caso eclatante della Stampa con la Juventus – si sottopongono a quel gioco perverso che è la libertà di stampa che poi costringe il direttore (e l’editore) a pubblicare ciò che la prima firma della redazione sportiva ha partorito per l’occasione. Nel caso di Roberto Beccantini, appunto, il gioco perverso assumeva spesso tratti di purissima goduria pensando a come avrebbero reagito i dirigenti bianconeri. Non è leggenda, sia ben chiaro, qui chi vi scrive parla per esperienza diretta avendo vissuto quegli anni, seppur in altra testata, fianco a fianco con Beccante, come noi chiamavamo il nostro. E badate bene, Beccantini non aveva antipatia per i gobbi, da cui magari qualche malizia preventiva. No, la sua serenità e la disciplina con cui si accostava agli argomenti era universalmente riconosciuta. Solo che sulla Juventus, se del caso, non si facevano sconti, proprio perché in pienissimo conflitto di interessi. Era la precondizione del giornalista perbene. Posizione minoritaria e faticosa, ovviamente, ma per questo ancora più apprezzata.
Se volete capire meglio perché il giornalismo di questa epoca è morto, chiedendovene le buone ragioni, la Juventus e i giornalisti di riferimento sono ancora un ottimo termometro. Restando alla Stampa, per esempio, dove Roberto Beccantini oggi non c’è più ma dove imperversa tal Christian Rocca, l’ultimo gioiellino che il direttore Molinari ha strappato al nulla per farsene suo pregevole editorialista. Questo Rocca, che peraltro non nasconde la sua fede bianconera, non esercita il mestiere del tifoso solo in quella terra dei cachi che è il calcio. No, il tipo ha imperversato in epoca renziana come uno dei migliori mediani di contenimento, centrifugando il suo impegno soprattutto sui social, quell’immensa distesa onanista dove s’esercitano i migliori replicanti dei leader e altresì i loro odiatori in un furiosissimo e perenne combattimento dei galli. Il tipo, sempre il Rocca intendiamo, non è esattamente impermeabile alle critiche e ne parliamo per esperienza diretta, visto che un bel giorno gli scrivemmo – per via privata – che per il suo viaggio a Londra da Davide Serra, guru allora della nuova sinistra renziana, avrebbe potuto risparmiare sé stesso recapitando semplicemente un registratore, non avendo eccepito assolutamente nulla alle teorie strampalate del medesimo. Il tutto finì su «IL» a spese del Sole24Ore e dei suoi lettori. Via mail, il Rocca ci rispose con una certa qual serenità: «Schiantato, lei è uno schiantato da cartellina junk mail» e altre cose che qui risparmio.
Ecco, questo elegantone adesso scrive per la Stampa, non più degli Agnelli in senso stretto e famigliare, ma debenedettiana per la sua maggioranza. Scrive di varia umanità, ma non perde il piacere di raccontare la vita bianconera. Ci potevano stare molti ragionamenti su questo settimo scudetto, Repubblica con Angelo Carotenuto ha scelto una riflessione sul concetto di egemonie, che «non aiutano un sistema a crescere», immaginando anche la passione per un calcio dei ricchi andrà inesorabilmente a scemare sino ad esaurirsi. Ha parlato di stile, di mancanza di stile, come esempio il siparietto Allegri-Tagliavento, ha parlato di strapotere societario con il dominio su procuratori e relativi giocatori, ma ha dovuto ammettere che non può essere la stessa Juventus a creare anche le alternative a sé stessa. Nella penna di Rocca, lo scudetto bianconero si è trasformato in un antidoto al populismo dilagante, ha parlato di “polemiche grottesche e miserabili”, ha sostanzialmente idealizzato il percorso della Juventus, tra marketing, organizzazione e programmazione, come argine ideale contro il governo Cinquestelle-Lega. Insomma, la terra dei cachi che si fa simbologia politica. Il tifoso e il politologo gobbo che si sublimano in “una delle cose più emozionanti di questi anni, per chi frequenta lo Stadium, l’immancabile rito pre-partita di Pavel Nedved che, invocato a gran voce dai tifosi, si dirige verso la curva Scirea prima applaudendo, poi battendo la mano destra sul cuore e infine indicando con entrambe le mani i calciatori che si stanno riscaldando sul campo, perché sono loro quelli meritevoli dell’affetto degli juventini”.
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