Calcio
Interismo e di altre malattie dell’amala
Non sono giorni facili per un interista (ma ce ne sono mai stati?) e, d’altro canto, suonano come piacevoli abitudini del primo autunno le trombe dei giornali che già parlano dell’esonero di De Boer, dell’irrimediabile rovina
della stagione e dell’assoluta inadeguatezza della società. Che dire? L’interismo non per niente ha fatto nascere la parola, a significare un’indubbia peculiarità di questa strana fede, fatta di passione e, allo stesso tempo, di un’insana necessità di critica.
Alla vigilia del derby d’Italia, con la Juve tritatutto fermata da un pareggio in Champions e, quindi, che si presenta ancora più affamata a San Siro, l’immagine che viene in mente è quella della compagnia dell’Anello, quando i nostri eroi si trovano nelle miniere di Moria, dimora di flotte di orchi e del terribile Ballrog, con l’eco dei tamburi a segnalare la catastrofe imminente.
Verrebbe da dire: calma, ragazzi, alla fin fine è una partita di calcio.
Ma non si può, non è possibile in questo paese e benché mai per questa partita.
Allora provo a rifugiarmi nella ricerca di scienze sociali, cercando un qualche appiglio nei numeri che possano giustificare, per domani, una piccola speranza.
C’è un qualche vantaggio nel giocare in casa? Abbiamo una qualche possibilità di uscire vivi dallo scontro?
È vero che, quando Yuto Nagatomo si infortuna, nascono più fiori nei prati?
Fatta salva l’ultima sciocchezza, in realtà la ricerca considera come un fenomeno abbastanza assodato il cosiddetto home advantage, il vantaggio cioè di giocare in casa. È statisticamente provato, e la cosa vale per molti campionati in Europa e per campionati dello stesso paese di livelli diversi, che ogni squadra di calcio faccia più punti in casa.
Fino ai primi anni Duemila, quasi il 60 per cento dei punti conquistati da un team, infatti, erano ottenuti tra le mura amiche. Il dato è leggermente calato, nel corso degli anni, probabilmente frutto del sempre maggiore ruolo della TV e della disaffezione che, soprattutto in Italia, caratterizza le presenze allo stadio (le polemiche di questi giorni relative alla Roma che minaccia di abbandonare l’Olimpico deserto sono solo un esempio).
Tuttavia, si tratta ancora di un fattore rilevante, le cui spiegazioni sono principalmente tre: una squadra fa più punti in casa perché conosce meglio il campo (sia in termini del materiale di cui è fatto sia delle dimensioni) e sfrutta questo vantaggio informativo; una squadra vince di più in casa anche perché gli ospiti, molte volte, sono costretti ad affrontare un viaggio stancante. Infine, ed è la cosa che mi preme di più, una squadra vince di più in casa perché ha il supporto dei suoi tifosi, che da un lato spingono i giocatori e dall’altro, anche inconsciamente, finiscono con l’influenzare le decisioni dell’arbitro.
C’è un articolo, appena pubblicato sul Journal of Sport Economics, di due ricercatori italiani, Michela Ponzo e Vincenzo Scoppa, che cerca di indagare empiricamente proprio l’ultimo aspetto.
E come?
Di fatto, i due, considerando i campionati dal 1991-92 al 2003-2004, si soffermano sulla serie A e sfruttano l’esistenza di diversi derby: quello di Milano, unitamente a quelli di Torino, Roma e Genova.
Il derby è una partita giocata tra le due squadre di una stessa città, per cui è ragionevole aspettarsi che, se un home advantage effect esiste, lo stesso sia dovuto principalmente all’effetto dei tifosi.
La squadra ospite, infatti, ha la stessa familiarità con lo stadio e non deve affrontare alcun viaggio.
Bene, il risultato dello studio econometrico è incontrovertibile: l’home advantage esiste eccome e aumenta la probabilità di vincere di 15-16 punti percentuali. Inoltre, i due ricercatori cercano anche di scomporre il vantaggio di giocare in casa nelle sue diverse componenti, stimando che per il 60 per cento esso sia proprio dovuto al ruolo dei tifosi e, per il 40 per cento, invece, dalle altre due determinanti.
E qui l’interista che è in me ha un’improvvisa intuizione: ma i giocatori della Benamata, quando sono a San Siro, si sentono effettivamente “in casa”?
Giovedì mi trovavo allo stadio, per lo sciagurato esordio di Europa League che ha visto l’Inter sconfitta dal modesto Hapoel.
Sconfitta meritata, netta, indiscutibile.
Sono state dette tante cose: tutta colpa del tecnico, che ha messo in campo la squadra senza un criterio.
Tutta colpa dei giocatori, perchè l’11 di giovedì era inguardabile in termini di tasso tecnico.
Tutta colpa di Nagatomo (e mentre lo dico sboccia una stella alpina sulle vette assolate).
Probabilmente c’è un po’ di tutto, in questo risultato, ma che dire del tifo?
A San Siro, mezzo vuoto, si sentivano quasi soltanto gli 800/1000 fantastici tifosi israeliani che, dal primo all’ultimo minuto, hanno dapprima cantato per sostenere la squadra e, poi, giustamente, festeggiato l’inattesa vittoria.
E i tifosi dell’Inter?
Svogliati, come e forse più dei giocatori in campo.
E poi (mi do del noi per evitare di fare lo scaricabarile) un vezzo che è tipicamente nostro: il tifo contro.
È probabile che Felipe Melo sia un incredibile zozzone del calcio, così come che Andrea Ranocchia abbia problemi anche a difendere la porta di casa.
Mi inserisco anch’io: la funzione di Nagatomo, a parte appunto il suo effetto sulla biodiversità vegetale, mi è sconosciuta.
Ciò detto, a me pare che San Siro sia un po’ come una fila al semaforo: uno sfogatoio (e bello grande) di frustrati che sembrano non veder l’ora di suonare il clacson.
Non appena l’annunciatore ha letto il nome di Andrea Ranocchia in formazione, è calato un silenzio glaciale (mentre tutti gli altri hanno ricevuto il solito urlo di incoraggiamento). Al primo tocco di palla, Felipe Melo è stato inondato di fischi.
Ora, assodato che non si abbia a che fare con fior di campioni, ma questo tipo di tifo aiuta veramente la squadra e entrare in campo con serenità?
Un fatto curioso, che è una semplice correlazione: quest’anno l’Inter ha vinto una sola partita ufficiale. E la giocava in trasferta.
Domani San Siro sarà pieno e, magari, prima di partire con i fischi preventivi, sarebbe importante provare a tifare. Come diceva lo spensierato Joao Mario ieri in conferenza (si vede che è appena arrivato): “Il Portogallo e il Leicester non erano mica favoriti, quindi anche la Juve si può battere”.
Con un colpo di testa di Nagatomo che svetta su Bonucci.
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