Calcio
Insulti razzisti tra Acerbi e Juan Jesus? Meglio raccontare di Johan Cruijff
In questi giorni il giornalismo sportivo sta concentrando parte delle sue attenzioni al caso Acerbi-Juan Jesus. Questione, a sentire gli esperti, squisitamente etica. Trattasi, nello specifico, di presunti insulti razzisti rivolti dal difensore interista a quello brasiliano durante l’ultimo confronto tra Inter e Napoli. Il giorno dopo la partita, reso pubblico il rapporto di gara stilato dall’arbitro La Penna, durante il ritiro della Nazionale italiana di calcio viene emesso un comunicato nel quale si legge che nonostante “non vi sia stato alcun intento diffamatorio, denigratorio o razzista […] si è convenuto di escludere Acerbi dalla lista dei convocati”. Spalletti assicura che stando a quello che gli ha detto il giocatore “non è un episodio di razzismo”. In ogni modo, il caso diventa giudiziario e ampiamente mediatico. Venerdì i giocatori sono stati ascoltati dalla procura della Figc. Acerbi avrebbe confermato la sua versione dichiarandosi estraneo a qualsiasi insulto razzista. Secondo il giocatore nerazzurro si tratterebbe di malinteso. Di contro, Juan Jesus avrebbe ribadito di aver ricevuto insulti razzisti, versione peraltro ampiamente diffusa attraverso i suoi social network. In settimana il giudice sportivo emetterà una sentenza per decidere come e se questi due vivaci trentenni si sono insultati durante una partita di calcio.
Ora, indipendentemente da come finirà questa vicenda, ad una persona dotata di elementare raziocinio sorgono inevitabili ed inquietanti domande. Perché escludere il giocatore dalla Nazionale se si crede alla sua versione dei fatti? Non sarebbe stato meglio restare neutrali senza rilasciare dichiarazioni? Inoltre, Juan Jesus si è inventato tutto? Cosa avrà detto il difensore dell’Inter per non essere capito? È intelligente gonfiare mediaticamente tutto quello che i giocatori si dicono in campo, soprattutto se si tratta di insulti e litigi? Ma ancora più importante e imbarazzante: come raccontiamo questo teatrino di accuse, smentite, insulti, tribunali, sentenze, squalifiche, sanzioni, labiali celati, bugie e sotterfugi ai nostri ragazzi innamorati del pallone? Mi pongo tra le altre quest’ultima domanda poiché mi sono trovato in questa difficile situazione: zio perché gli ha detto negro? Perché si arrabbiano così? Che cos’è il razzismo? I giocatori non si possono offendere se litigano? Quali sono le altre cose che non si possono dire? In grande difficoltà, messo alle strette da inevitabili domande, vengo colpito da un lampo di genio e ricordo che siamo a cavallo del 24 marzo ed è possibile sfruttare l’occasione per sviare da questo triste teatrino giornalistico e raccontare una storia di calcio:
In questi primi giorni di primavera, otto anni fa, moriva a Barcellona Johan Cruijff. Da giocatore vinse nove Campionati olandesi, sei Coppe d’Olanda, una Liga, una Coppa del Re, tre Coppe Campioni, una Supercoppa europea e una Intercontinentale. Incantò il mondo capitanando ai mondiali del ‘74 una delle squadre più forti della storia del calcio. Vinse tre palloni d’oro. In una nazione come la nostra in cui vige il motto bonipertiano secondo cui “vincere non è importante ma è l’unica cosa che conta”, basterebbe citare questo palmares per glorificare la grandezza del “profeta del gol”. Ma Johan Cruijff fu molto più di quello che vinse da giocatore. La parola che più di tutte definisce il suo ruolo nella storia del calcio è rivoluzione: come giocatore incarnò l’idea di calcio del maestro Rinus Michels. Si tratta del famoso “calcio totale”: flessibilità di ruoli e posizioni, undici giocatori in trenta metri di campo, velocità di giocata, ricerca essenziale e geometrica dello spazio. Un calcio mai visto prima, di cui Johan fu l’indiscusso profeta. Il compimento della rivoluzione si ebbe quando nel 1988 il 14 più famoso della storia del calcio divenne allenatore del Barcellona. Gli aspetti tattici iniziarono a costituire il fulcro del calcio e il 3-4-3 una scienza da trasmettere realizzabile attraverso le indispensabili qualità tecniche dei singoli. Le componenti carismatica e comunicativa assunsero una peculiare centralità: il modo di vestire e di stare in panchina, le altezzose difese pubbliche delle sue idee, i rimproveri a campioni come Stoičkov nelle conferenze stampa. Il ruolo manageriale che Cruijff pretese non ebbe precedenti: nessuno poteva metter bocca sulle sue decisioni, dalla scelta dei collaboratori a quelle di mercato,. Impose le sue idee tattiche all’intero settore giovanile in modo da poter inserire agevolmente giovani esordienti. Sotto la sua gestione il Barcellona conseguì risultati mai raggiunti vincendo quattro volte consecutive la Liga, una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe e conquistando la prima Coppa dei Campioni della sua storia. L’avventura sportiva del ragazzo olandese figlio di un verduraio e di una donna delle pulizie dello stadio De Meer di Amsterdam insegna alle giovani generazioni che le rivoluzioni sono possibili. Esse si realizzano attraverso la capacità di pensare qualcosa di nuovo e la consapevolezza che il singolo, per quanto profeta, è sempre la parte di un tutto che lo eccede.
Il razzismo, nelle sue varie forme, non si combatte certo montando e disquisendo sopra un processo sportivo per decidere se due giocatori si sono insultati. Una via decisamente migliore potrebbe essere quella di non enfatizzare mediaticamente situazioni come il caso Acerbi – Juan Jesus e ricordarsi di celebrare storie di vite che sono in sé stesse esempi educativi per ragazzi di ogni età. Domenica 24 marzo la Gazzetta dello sport dedica l’intera terza pagina per interrogarsi sul futuro di Acerbi. Non una parola su Cruijff, citato casualmente a pagina 21, in un’interessante intervista al Cavaliere Brunello Cucinelli, 70 anni, noto imprenditore nel settore tessile, nonché ex presidente del Castel Rigone.
Oggi, caro Johan, attendiamo da tempo una rivoluzione: un nuovo modo di porre la questione del razzismo.
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