Calcio
Il “primo” 11 settembre e la partita più patetica della storia
Prima dell’11 settembre, ci fu un altro 11 settembre. Nel 1973. Quel giorno, il governo democraticamente eletto di Salvador Allende fu abbattuto da un colpo di stato militare: davanti all’occhio delle telecamere, che ripresero in diretta l’attacco e la carneficina, aerei incitati all’odio da mano straniera bombardarono gli esecrati palazzi del potere. Un’onda di indignazione si propagò in tutto il globo, mentre deflagravano edifici, alte fiamme arroventavano l’aria e i superstiti fuggivano atterriti, coperti di polveri e calcinacci.
È stato autorevolmente affermato che le molte dittature che funestarono l’America Latina nella seconda metà del secolo scorso furono accomunate da una matrice unica per obiettivi, forme e tecniche impiegate [1]. Tale omogeneità fu garantita da un lato dal “Piano Condor”, ossia il coordinamento occulto tra i servizi di intelligence di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, in forza del quale si fornirono “caratteristiche di extraterritorialità permanente e coordinata alla repressione sociale condotta mediante il terrorismo di Stato”, e dall’altro dalla regia segreta degli Stati Uniti, che poterono agevolmente silenziare le pur presenti dispute fra i paesi latino-americani.
Tuttavia, i colpi di Stato che più scioccarono l’opinione pubblica internazionale negli anni ‘70, quello cileno del 1973 e quello argentino del 1976, si differenziarono sotto un aspetto fondamentale: tanto fu celata e invisibile la presa del potere nel secondo, tanto fu ostentata e sfacciata la prova di forza dell’esercito nel primo. Non per caso, si sono fissate nell’immaginario collettivo alcune fotografie che rievocano con straordinaria immediatezza la ferocia del golpe e della junta militar insediata da Augusto Pinochet: il palazzo della Moneda in fiamme; il presidente Salvador Allende, con l’elmetto in testa, che insieme alle guardie del corpo scruta il volo dei bombardieri; il generale Pinochet seduto a braccia conserte, con l’espressione arcigna e severa dietro le lenti scure.
Altrettanto iconiche sono le immagini dello Estadio Nacional, trasformato in luogo di detenzione, tortura ed esecuzioni sommarie, e quelle di un calciatore in maglia rossa che nello stesso stadio scaglia il pallone in una porta sguarnita sotto lo sguardo imbarazzato dei compagni: fu, diciamo così, l’unico gol della “partita più patetica della storia”, come la definì lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano [2].
Il giorno del pronunciamiento la nazionale cilena stava preparandosi a partire per Mosca, dove avrebbe disputato lo spareggio inter-zona per l’accesso ai Mondiali del 1974. Molti calciatori, di umili origini, avevano salutato con favore il governo di Unidad Popular: alle elezioni parlamentari del marzo 1973, l’attaccante Carlos Caszely aveva persino fatto campagna per i candidati del Partito comunista. In un primo momento, il governo militare proibì qualunque espatrio, ma poi si convinse che la trasferta della Roja avrebbe diffuso nel mondo l’immagine di un Cile stabile e pacificato. Il 15 settembre, la squadra decollò da un aeroporto secondario; era la prima nutrita delegazione di cileni a lasciare il suolo patrio dopo il golpe. Volarono in Argentina, Brasile, Panama, Guatemala e da lì in Francia, da dove si spostarono in Svizzera, ospitati nella lussuosa villa del futuro presidente della FIFA Joseph Blatter, all’epoca direttore sportivo del Neuchâtel Xamax. Fu lo stesso giorno della morte di Pablo Neruda, le cui poesie molti avevano in valigia, insieme ai nastri di Victor Jara, il cantautore del popolo, cui i torturatori spezzarono entrambe le mani prima di ammazzarlo a revolverate.
Mentre a Santiago si celebravano le esequie del poeta e simbolicamente quelle della democrazia, la Roja atterrò a Mosca per scoprire che gli estremi si toccano. Se i fascisti cileni battevano le strade per tagliare i pantaloni alle donne e capelli e barbe agli uomini, i doganieri sovietici pretendevano di negare l’accesso proprio a Caszely, il cui volto non rassomigliava alla fotografia sul passaporto: si era fatto crescere i baffi e tanto bastava a trasformarlo in un impostore. Il 26 settembre, nel gelido stadio Lenin, i cileni si asserragliarono in area di rigore e strapparono un prezioso pareggio. Non dovevano ringraziare soltanto il loro “eroismo”, come scrisse il “El Mercurio”, il giornale foraggiato dai gringos che aveva fatto a pezzi Allende, ma anche l’arbitro, il brasiliano Armando Marques: notorio anti-comunista, era stato avvicinato prima della gara dai dirigenti cileni, che l’avevano convinto a fare in modo di evitare una sconfitta che avrebbe assunto un inequivocabile valore simbolico.
Lo 0-0 rimandò la qualificazione al match di ritorno, che doveva giocarsi allo Estadio Nacional, dove migliaia di persone attendevano di essere interrogate e seviziate dagli aguzzini della DINA, la polizia segreta pinochettista. Benché la conversione di una struttura sportiva in centro di reclusione non fosse un inedito (era già capitato al Roland Garros e al Velodromo di Parigi di ospitare ebrei e oppositori politici durante la Seconda guerra mondiale), la mostra dei prigionieri sugli spalti del Nacional fu una delle manifestazioni più spudorate della protervia dei militari. L’aperto ed esibito disprezzo della junta per i più elementari diritti umani si spinse fino al punto di rinchiudervi e poi di uccidervi persino i giornalisti americani Charles Horman e Frank Teruggi [3], che vivevano a Santiago ed erano sospettati di simpatie progressiste.
Col sostegno di alcuni paesi africani, i sovietici chiesero di spostare la partita in campo neutro. Per sincerarsi della situazione, la FIFA spedì nella capitale cilena il vice-presidente brasiliano Abilio D’Almeida e il segretario generale, lo svizzero Helmut Käser, che entrarono nello stadio e passeggiarono sul terreno di gioco, discorrendo amabilmente con i militari e i rappresentanti del governo. Non è chiaro se la commissione fu ingannata o se invece decise di ignorare le lugubri evidenze della verità: il verdetto fu che regnava la calma più assoluta e pertanto l’incontro poteva regolarmente aver luogo.
Nonostante i momenti più aspri della Guerra Fredda fossero passati, come dimostravano i negoziati russo-americani che avevano condotto alla firma degli accordi SALT sulla limitazione degli armamenti atomici, l’occasione era troppo ghiotta per non ergersi a paladini dei diritti umani e dei principi democratici: l’URSS si rifiutò di giocare e rinunciò a qualificarsi alla Coppa del mondo.
Per il regime non era abbastanza e, con la complicità della FIFA, organizzò una grottesca e macabra sceneggiata. Il 21 novembre 1973, la nazionale cilena scese ugualmente sul terreno di gioco e al fischio dell’arbitro austriaco Erich Linemayr si diresse nella metà campo sgombra di avversari. Il pallone passò di giocatore in giocatore, nessuno ebbe il coraggio di calciarlo in tribuna, né Caszely, né il capitano Francisco Valdés, cui anzi toccò il compito di spedirlo nella porta vuota. Poi, per intrattenere i 18.000 spettatori che pur erano accorsi allo stadio, fu giocata un’amichevole col Santos, la squadra che era stata di Pelé: la Roja perse 5-0.
Infine, nel 1988, Caszely ritrovò il rispetto di se stesso. In occasione del plebiscito che avrebbe dovuto conferire a Pinochet il mandato a governare per altri otto anni, il fronte del “no” pubblicò un video in cui appariva una dolce signora che invitava i cileni a voltare pagina e a pensionare il dittatore. La donna, ormai avanti con gli anni ma con la luce della speranza negli occhi, narrava alla telecamera il sequestro e i supplizi subiti. Non portava segni sul corpo, ma tracce indelebili nella mente e nel cuore, al punto da non aver mai rivelato la natura delle torture subite. Spronava gli elettori ad aprire una fase nuova, all’insegna della democrazia, della pace e dell’allegria. Poi la ripresa si allargava e nell’inquadratura compariva Caszely che dichiarava di sostenere la campagna contro il vecchio autocrate, per vivere in piena libertà e perché, concludeva, “questa bella signora è mia madre”.
[1] Calloni, S., Operazione Condor, Zambon Editore, 2017
[2] Galeano, E., Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer, 2015
[3] La vicenda di Charles Horman fu rievocata da Costa-Gravas nel film “Missing” del 1982.
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