Calcio

Il fascismo nel pallone

24 Aprile 2019

Wayne Hennessey, portiere gallese di 32 anni, in forza al Crystal Palace, viene immortalato lo scorso 5 gennaio col braccio destro teso, saluto romano col quale festeggia insieme ai propri compagni di squadra il successo contro il Grimsby in Coppa d’Inghilterra. La Federazione calcistica inglese, sollevatosi il polverone, avvia prontamente un’indagine. L’esito è stato assolutorio: Hennessey non è punibile per manifesta ignoranza. Proprio così. Il panel della Football Association ha constatato la “deplorevole ignoranza” del giocatore, ignaro di cosa sia stato il nazismo e il fascismo, consigliandogli di dedicare un po’ del suo tempo libero alla lettura dei libri di storia. L’estremo difensore britannico è in buona compagnia. Nel marzo 2013 il centrocampista ellenico Giorgios Katidis, allora ventenne, in forza all’AEK Atene, festeggiò il gol vittoria contro il Veria con un saluto romano in mezzo al campo. Il gesto gli costò la radiazione dalla nazionale greca e la sospensione dal club di appartenenza, oltre che l’aggressione da parte dei tifosi dell’AEK, notoriamente di sinistra. Katidis proseguì la propria carriera sbarcando quella stessa estate in Italia, al Novara, giustificando la sua condotta come incolpevole: “So che suona come una scusa, ma onestamente non conoscevo Adolf Hitler, volevo solo fare alzare il pubblico”.

La deriva fascista nel mondo del calcio professionistico non è patologia contemporanea. Soprattutto in Italia, per evidenti motivi storici. Non è un problema che interessa esclusivamente i gruppi ultras sparsi lungo lo stivale, ma anche gli atleti. Basterebbe citare i Mondiali vinti dalla nostra nazionale nel 1934 e 1938, nel pieno del ventennio fascista. Terminata la seconda guerra mondiale bisognerà attendere i conflittuali anni 70 per vedere risorgere un palese schieramento di estrema destra, guidata da un goleador di razza quale Giorgio Chinaglia, trascinatore nella conquista dello scudetto laziale nel 1975. Le cronache dallo spogliatoio narrano di un gruppo affiatato di camerati, sostenitori del Movimento Sociale Italiano e del suo leader Almirante. Seguì Stefano Tacconi, portiere della Juventus, che appesi i guanti al chiodo si lanciò nell’agone politico prima candidandosi alle Europee del 1999 con AN, per poi passare in veste di coordinatore in Lombardia del Nuovo MSI-Destra nazionale di Gaetano Saya dal quale successivamente prenderà le distanze.

Venendo a tempi più recenti non si può non citare Paolo Di Canio, estimatore del Duce di cui ha persino tatuato la scritta Dux (fatto che gli costò l’allontanamento nel 2017 da Sky), più volte rivoltosi ai sostenitori della curva nord laziale col braccio teso. Di quei saluti romani ha fatto ammenda: “Lo sport deve restare fuori da certe cose”. Ma l’ideale rimane ben saldo: “Io fascista? Preferirei evitare le etichette. Ho sempre spiegato come la penso e non è un mistero”. Chissà se la pensa allo stesso modo Mauro Zarate, ex idolo biancoceleste, pizzicato nel marzo 2010 in Curva Nord col braccio dritto ed il palmo della mano disteso. A seguito del deferimento innanzi all’organismo disciplinare della FIGC il giocatore argentino provò a ridimensionare le proprie responsabilità: “Ero consapevole del senso politico del saluto romano, ma l’ho fatto perché pressato da alcuni tifosi vicino a me”. Forse pure Stefan Radu, nel 2012, sarà stato vittima della medesima pressione nel bel mezzo dei festeggiamenti per la vittoria contro il Napoli. Nei primi anni 2000 additato quale fascista “a sua insaputa” è stato Fabio Cannavaro.  Nel 2007, detentore del pallone d’oro, sul manto erboso del Santiago Bernabeu festeggia il titolo conquistato con il Real Madrid sventolando un tricolore con fascio littorio. La bandiera consegnatagli dagli Ultras Sur, frangia della tifoseria madridista nota per le sue simpatie di estrema destra, viene immediatamente arrotolata non appena il giocatore si accorge del simbolo. “Non sono un nostalgico, ma non sono di sinistra” dirà successivamente in merito all’accaduto. A braccetto con il capitano della nazionale campione del mondo anche Buffon e Materazzi, le cui tendenze politiche non sono mai state un mistero. Chissà se si ritiene un nostalgico Alberto Aquilani: nei suoi trascorsi romanisti ammise di collezionare busti del Duce. “Regali di uno zio” provò a schermirsi dalle polemiche.

Arrivando (quasi) ai giorni nostri si può ricordare l’episodio che ha visto coinvolto Federico di Francesco, figlio di Eusebio, nel febbraio 2016. Dopo un gol siglato con la maglia del Lanciano si fionda sotto il settore occupato dalla tifoseria organizzata della squadra abruzzese concedendosi al saluto romano. La denuncia mossa dall’Unione comunità ebraiche (Ucoe) viene respinta al mittente quale sfortunato equivoco, con il club che ne sottolinea la natura “goliardica e scherzosa, con il calciatore che saluta la propria curva sull’attenti come una recluta davanti al proprio stato maggiore (il gesto comincia con la mano sulla fronte e si conclude con un abbraccio ideale ai tifosi)”. Più di recente, nel novembre 2017, il giocatore della 65 Futa Eugenio Luppi esulta in maniera inequivocabile per una sua marcatura contro il Marzabotto (campionato di seconda categoria bolognese): svestita la casacca di gioco compare una maglia con il vessillo della Repubblica Sociale di Salò, che fa il paio con la sua esultanza sfrenata a braccio destro teso. La società di appartenenza, allo scoppio del caso, prende le distanze dal proprio tesserato sospendendolo. Il protagonista della vicenda inizialmente si scusa sui sociale network: “Sono qui ad esporre il mio più totale e sincero pentimento. Sono consapevole di aver recato offesa non solo alle associazioni partigiane e antifasciste ma a tutta la comunità di Marzabotto. Ho agito con leggerezza senza pensare alle conseguenze che questo mio gesto avrebbe scaturito tanto a livello personale quanto comunitario. Ho lasciato passare un terribile messaggio di cui, ribadisco, sono totalmente pentito e dispiaciuto. So che nessuna mia parola potrà cancellare né il mio sconsiderato gesto né il dolore che esso ha causato. Ma era mio dovere morale scusarmi”. Successivamente, però, ha in parte ritrattato le sue dichiarazioni minimizzando l’accaduto: “Non ho fatto nessun saluto romano, il braccio non era teso, stavo semplicemente salutando la mia morosa e il mio papà che erano in tribuna. […] la politica non c’entra, avevo questa maglia normalissima e l’ho messa. Non c’era nulla di premeditato.”

In un paese nel quale il calcio è una questione seria, spesso un affare di Stato, non si tratta di episodi secondari. Ancor di più se, in vista delle celebrazioni per la Festa della Liberazioni del 25 aprile, il fronte della polemica ha assunto toni da stadio e ha adottato termini calcistici. “Il 25 aprile sarò a Corleone, la Sicilia è una terra bellissima che non merita di essere conosciuta solo per la mafia. Il 25 aprile ci saranno i cortei dei partigiani, dei rossi, dei gialli, a me interessa poco il derby fascisti-comunisti, a me interessa il futuro e liberare il paese dalla mafia”. Così si è espresso non più tardi del 10 aprile scorso Matteo Salvini, vice Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, in una delle sue innumerevoli dirette Facebook, in clima da perenne campagna elettorale innanzitutto nei confronti dell’alleato di governo pentastellato. L’uso delle parole da parte del leader leghista non è mai casuale. Il “Me ne frego” di mussoliniana memoria si cela dietro il paravento dell’impegno istituzionale, ma è come nascondersi dietro un dito, proprio come i giocatori fascistoidi troppo ignoranti per non sapere, equivocati, fraintesi. Sarebbe curioso sapere quanti di loro parteciperanno alle celebrazioni per la Liberazione e quanti, idealmente, condividano i valori di libertà e democrazia sbocciati dopo la caduta del nazifascismo.

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