Calcio

È che “quel calcio là” non c’è più

17 Giugno 2017

Potessi tornare indietro a ‘quel calcio là’ lo farei. E molto volentieri. ‘Quel calcio là’, quello degli anni Ottanta-Novanta. Quando il campionato italiano era definito ‘il più bello del mondo’. Si giocava, tutti, la domenica pomeriggio alla stessa ora. I gol – immaginati nelle voci di ‘Tutto il calcio…’ si vedevano a ‘Novantesimo Minuto’. E l’appartenenza, l’attaccamento alla maglia, non erano parole vuote. In campo. E pure fuori.

Sul prato, di quelle che si definiscono (o si definivano) ‘bandiere’ , ne scendevano eccome. C’era poco da fare: Bergomi e Beppe Baresi erano l’Inter; Franco Baresi, Tassotti e Evani, a giocare in un San Siro colmo in B con la Cavese, e poi Maldini, a alzare coppe su coppe, erano il Milan. Antognoni, che avrebbe potuto vincere chissà quanti trofei altrove, la Fiorentina e Bruno Conti e Di Bartolomei, poi Giannini e Totti, la Roma come Zoff-Gentile-Cabrini e Scirea e poi Del Piero, la Juve.

Pure gli stranieri, diventavano ‘bandiere’. Nessuno avrebbe slegato Platini dalla Juventus, il Napoli da Maradona, la Roma da Falcao o Junior dal Torino. Gli olandesi, Gullit-Van Basten-Rijkaard dal Milan o i tedeschi Brehme-Matthaeus-Klinsmann dall’Inter. Nessuno. Ché era tutta una questione di appartenenza. Anche fuori dal rettangolo di gioco. Dietro la scrivania, ad esempio, con Rozzi e il suo fare ‘ruspante’ a guidare l’Ascoli, Anconetani e il suo sale anti-jella a incarnare, ben più della presidenza del Pisa e Edmeo Lugaresi, con la sua prosa immaginifica, il Cesena. Per tacere delle famiglie storiche come gli Agnelli a Torino, i Moratti e i Berlusconi a Milano, i Matarrese a Bari, per citarne alcuni.

Tutta una questione di appartenenza. Pure sull’album delle figurine, quello del ‘celò, mi manca’, in cui eri certo che, di anno in anno, il capitano dell’Inter, fino al suo ritiro, sarebbe stato quello e della Juve o della Roma quell’altro. E, addirittura, in Tivvù, con i telecronisti di ‘Novantesimo minuto’ legati indissolubilmente a una maglia e a una città: Luigi Necco da Napoli, Tonino Carino da Ascoli, Giorgio Bubba da Genova, Gianni Vasino da Milano, Marcello Giannini da Firenze, Cesare Castellotti da Torino…

Tutta una questione di appartenenza che, oggi, non c’è più. E che, improvvisamente, con il no al rinnovo del contratto con il Milan, di ‘Gigio’ Donnarumma, sembra essere tornata centrale nel mondo del pallone. Sarà che l’idea romantica del giovanissimo, cresciuto con addosso i colori più amati e diventato giocatore simbolo ha un innegabile fascino, ma, a scorrere le migliaia di ‘graffi’ affidati ai social media, l’attaccamento alla maglia pare essere diventato l’unico valore che conta e Donnarumma un ‘mercenario’ qualsiasi. Pronto a rinnegarla, quella maglia, per monetizzare come se non ci fosse un domani.

Eppure, al di là del fatto che il portiere possa anche avere compiuto la sua scelta per misurarsi su palcoscenici più prestigiosi, in cosa si distanzierebbe l’atteggiamento del giocatore da quello di tanti altri? Davvero nel mondo reale, nella quotidianità, l’appartenenza è la bussola con cui orientarsi o non è, piuttosto, la crescita economica, il gonfiare il portafogli, il motore immobile? Perché sarebbe bello, molto bello, vivere in una società – mondo del calcio compreso – in cui le ‘bandiere’, i simboli, hanno ancora un’aura positiva, quasi da cavaliere medievale senza macchia e senza paura, fedeli. Invece non è così.

‘Quel calcio là’, non c’è più. Ce ne è un altro, con le televisioni – e i loro lauti diritti a finire nelle casse dei club – a dettare i tempi del campionato; i procuratori a divenire una sorta di padre-confidente-manager dei giocatori e a ritagliarsi sempre più spazio; i media a rilanciare, a colpi di iperboli, una sfida sportiva dipinta più col registro dello spettacolo che con quello della fatica, del sacrificio, dell’agonismo. “Quel calcio là” non c’è più, come non c’è più quella società. Tocca farsene una ragione. Magari a malincuore, ma tocca.

(Immagine di copertina tratta da tuttocalciatori.net)

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