Calcio

Assolti gli ultras fascisti, lo stadio eletto a universo metafisico a sé stante

9 Marzo 2015

Rispetto al resto del mondo, lo stadio andrebbe considerato a pieno titolo una zona franca, e ciò che è reato nelle strade non lo è quando avviene sui gradoni di una curva.

Piaccia o meno, si tratta della logica conseguenza della sentenza del Tribunale di Livorno, che ha assolto quattro ultras veronesi incriminati per aver compiuto il gesto del saluto romano allo stadio in occasione della partita Livorno-Verona del 3 dicembre 2011, e per i quali la procura aveva chiesto una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione.

Difficile spiegare come sia possibile arrivare a una decisione del genere se si pensa alla recente sentenza della Cassazione (12 settembre 2014, n. 37577) che aveva esaminato il caso di alcuni esponenti di Casapound che durante un incontro pubblico a Bolzano nel 2009 si erano prodotti nel saluto romano. Allora la Corte aveva affermato che quel gesto deve tuttora essere considerato reato, in quanto manifestazione esteriore tipica del partito fascista, ed è punibile come tale.

Una contraddizione?

In attesa delle motivazioni del tribunale di Livorno, è interessante leggere l’analisi di Ugo Maria Tassinari, esperto del cosmo della destra radicale e autore di Fascisteria, secondo cui il giudice “semplicemente ha deciso che, nelle determinate circostanze, il fatto non costituisce reato”.

Scrive Tassinari:

«A determinare la pronuncia ha concorso sicuramente la decisione della Procura di contestare non la più vecchia e “solida” legge Scelba (contro la ricostruzione del partito fascista), ma la più recente legge Mancino (contro le discriminazioni razziali) che prevede come condizioni specifiche perché si configuri il reato il fatto che rappresentare un pericolo pubblico (cioè favorire l’adesione all’ideologia fascista) e che costituisca un atto discriminatorio in base alla religione, la razza e la nazionalità».

Nessuna delle due condizioni previste dalla legge Mancino esisterebbe nel caso specifico. In questo senso, i giudici potrebbero avere accolto il punto di vista della difesa, esposto nell’arringa finale riportata dal Tirreno.

Rispetto al primo punto (pericolo di favorire l’adesione all’ideologia fascista) la difesa ha risposto dicendo che:

«Il pericolo, con quel gesto di far aderire all’ideologia fascista altre persone, com’è spiegato nell’articolo 2 della legge Mancino, è infondato perché nell’occasione si confrontavano due tifoserie che sono ideologicamente avverse, dunque nessuno dell’altra fazione avrebbe potuto aderire a dettami fascisti».

Secondo i difensori mancherebbe anche il crimine di discriminazione, sia razziale che religiosa:

 «In questo caso non c’è stato nessun atto discriminatorio per quello che riguarda la razza, la religione e la nazionalità, visto che si tratta di due tifoserie italiane che professano la religione cristiano cattolica».

Di fatto, con la sentenza di Livorno si stabilisce un diverso significato per lo stesso gesto se compiuto in curva, nell’ambito di un confronto tra opposte tifoserie. In questo caso anche il saluto fascista perderebbe il suo significato reale per assumere una sorta di carattere “rituale”.

Il risultato è che – da oggi anche per via legale – si va affermando la verità paradossale in base al quale lo stadio rappresenta una sorta di universo metafisico, in cui si celebrano riti che poco o nulla hanno a che fare con la realtà, dalla quale non vengono influenzati e sulla quale non esercitano influenza alcuna.

In questo senso è utile rileggere un passaggio di Descrizione di una battaglia di Alessandro dal Lago:

«In quanto sport di squadra, che permette identificazioni con determinati simboli (indipendentemente, in linea di principio, da appartenenze specifiche), il calcio promuove una divisione del mondo, in particolare dei tifosi, in amici e nemici  (…) L’opposizione simbolica su cui si basa il discorso del calcio trascende le tradizionali divisioni politiche e ideologiche e le differenze di ceto o di status (…) In generale, proprio perché l’identificazione in una squadra non ha ragioni prevalenti legate a un’appartenenza sociologica, etnica o politica giustificabile, riaffermare la propria adesione è un gioco interminabile e aperto, che quindi può essere riempito di qualsiasi contenuto (…) è in questa cornice che il problema della violenza – degli slogan razzisti, fascisti o estremisti, della trasgressione organizzata, dello spettacolo vistoso che i tifosi hanno innestato sullo spettacolo sportivo – deve essere compreso. La metafora dominante “amico/nemico” e i riti e comportamenti che ad essa si riferiscono non sono il semplice e automatico riflesso di metafore, riti e comportamenti correnti della società, ma una loro trasformazione resa autonoma; essi costituiscono una “forma”, parafrasando Simmel , che si è staccata dai propri contenuti, o meglio che ogni domenica si stacca dai contenuti della vita quotidiana».

Questo paradosso spiegherebbe anche – e di certo avalla ulteriormente – l’atteggiamento blando adottato fino a oggi nei confronti dei cosiddetti crimini di “discriminazione territoriale” o di quelli propriamente “razziali”, sempre che perpetrati da “due tifoserie italiane che professano la religione cristiano cattolica”.

Eppure, il fatto che questi due mondi – quello reale di tutti i giorni e quello metafisico delle curve – siano, e restino, separati come compartimenti a tenuta stagna appare un’ipotesi azzardata, contraddetta dai fatti e sulla quale è pericoloso puntare.

@carlomariamiele

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