Calcio
Antisemitismo e odio negli stadi, l’impegno del Viminale è una buona notizia
Martedì 27 giugno è stata sottoscritta dai ministri dell’interno e dello sport una dichiarazione dedicata al contrasto dell’antisemitismo nel calcio. Partiamo da un dato. Per la prima volta in Italia si firma un documento che non si limita a deprecare episodi di razzismo e di antisemitismo negli stadi, ma prospetta delle azioni concrete sulla base di una legislazione esistente che in questi decenni è stata scarsamente applicata. Una novità, quindi. Un segno di attenzione da parte delle istituzioni su un tema allarmante come la diffusione di linguaggi d’odio, in particolare dell’antisemitismo, sugli spalti degli stadi e in campo. Si tratta innanzitutto di una questione di prospettiva. In questo caso, proviamo a guardare il bicchiere mezzo pieno, prima di porre l’accento sul bicchiere mezzo vuoto.
Certo, come scrive criticamente Valerio Moggia su Linkiesta il 28 giugno “l’impressione è che si cerchi di ripulire la facciata di un palazzo ormai disastrato”. I difetti del mondo del calcio in termini di violenza fisica e verbale, di inadeguatezza degli impianti, di rapporti poco trasparenti fra società e gruppi organizzati di ultras (spesso infiltrati da elementi malavitosi), di bilanci sociali poco trasparenti sono sotto gli occhi di tutti. Lo stadio di calcio (e quasi solo di calcio) è quel luogo dove ancora oggi lo Stato consente entro certi limiti il libero sfogo di violenze declinate in vario modo. Il singolo tifoso che urla improperi, i cori collettivi con testi di puro odio guerresco, a volte episodi di violenza collettiva faticosamente contenuta dalle forze dell’ordine. Tutte azioni che non vengono tollerate nelle piazze, mentre lo Stato decide di investire in uomini e denaro ogni domenica (e ormai quasi tutti i giorni della settimana) per far sì che la violenza sociale trovi in quei luoghi uno sfogatoio tutto sommato gestibile. Solo che il livello di sostenibilità di quel tipo di violenza è ormai stato ampiamente superato. Razzismo, antisemitismo e discorso d’odio fuoriescono da quei contenitori e dilagano sui social, nei bar e nei circoli sportivi. Sembra quindi giunto il momento di agire. Quando, nel 1989, il presidente dell’Udinese accettò il diktat dei tifosi e scisse il contratto con l’israeliano Rosenthal travolto da insulti antisemiti puri, nessuno mosse un dito. Oggi questo non sarebbe più possibile.
In effetti la “Dichiarazione d’intenti” voluta dal Coordinatore nazionale per la lotta all’antisemitismo Giuseppe Pecoraro e sottoscritta da due ministri e dalla FIGC si inquadra in una serie di iniziative ad ampio raggio. Si tratta di uno fra i numerosi prodotti della strategia europea di contrasto all’antisemitismo, dalla quale è derivata la nostra strategia nazionale italiana. Entrambe operanti nel quadro di un documento, la working definition di antisemitismo dell’IHRA (Alleanza Internazionale di Ricordo dell’Olocausto) che ha stabilito dal 2016 i parametri istituzionali di riferimento nei quali i singoli paesi e le organizzazioni sovranazionali hanno deciso di disegnare le modalità di contrasto all’odio antiebraico. Il documento sottoscritto oggi dai rappresentanti del governo italiano è coerente con azioni già intraprese in ambito internazionale. Ultima in ordine di tempo è stata la conferenza “Combating Antisemitism in and through Sports” che si è svolta lo scorso marzo a Ginevra. Certo, una volta sottoscritta la Dichiarazione il rischio è che essa rimanga lettera morta. Bisognerà vedere quanto il Giudice sportivo è disposto – ad esempio – a calcare la mano infliggendo multe e sospensioni in presenza di cori razzisti e antisemiti, utilizzo di simbologie neonaziste o fasciste. L’abbondante uso di simbologie neofasciste (l’aquila della repubblica sociale, i fasci in tutte le fogge, la M di Mussolini ecc.) non è neppure citato nella dichiarazione, e questo non è bene, mentre viene calcata la mano sul numero 88 che circola impunemente sui social ma che è stato il protagonista di un singolo episodio da curva. Mancano poi gli auspicati disciplinari che consentano al responsabile dell’ordine pubblico di interrompere la gara in presenza di intemperanze, non solo riguardanti atti di antisemitismo ma anche di odio razzista e discriminatorio generico.
Un punto particolarmente pregevole del documento sottoscritto, che introduce in qualche modo le dinamiche virtuose della giustizia riparativa, è l’ultimo, che così recita: “Organizzare, in collaborazione con le Società e le Leghe, visite al Memoriale della Shoah di Milano (Binario 21) o in altri luoghi della memoria della Shoah, in Italia e all’estero, per i rappresentanti delle tifoserie organizzate e per i tesserati delle società sportive, al fine di far conoscere la vicenda storica della deportazione degli ebrei e di sensibilizzare sul tema dell’antisemitismo”. Si tratta innanzitutto di un riconoscimento all’ente che per primo è riuscito in Italia a raccogliere i rappresentanti di una quindicina di club calcistici in un’ottica di riflessione sulla memoria dello sterminio degli ebrei. Ma è anche una proposta che va oltre il mero aspetto repressivo e prospetta una dinamica educativa sul tema dell’inclusione, del riconoscimento della diversità e del contrasto all’odio razzista e antisemita che offre spunti operativi importanti.
La dichiarazione sottoscritta sembra essere un buon punto di partenza, che potrebbe aiutare l’intero mondo del calcio a intraprendere un percorso che si potrebbe definire di civilizzazione, che non potrà che far bene all’intero comparto sportivo italiano.
*L’Autore è direttore del Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea CDEC
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