Calcio
Il saluto a Gino Corioni: addio ad una provincia perduta
Per ogni bresciano appassionato di calcio, Gino Corioni era il pres. I cori feroci che ad anni alterni gli piovevano addosso dalla curva dello Stadio Rigamonti sono un lontano ricordo. A farla da padrone ora è l’omaggio commosso all’uomo, un appassionato di sport e di vita che portò il Brescia Calcio al settimo posto in Serie A nella stagione 2000/2001, seguito dalla doppia finale della Coppa Intertoto, persa senza mai perdere contro il Paris Saint-Germain.
Eppure il suo rapporto con certi settori della curva non è mai stato idilliaco. Anzi. I cori “contro Corioni” li sapevano a memoria anche quelli che allo stadio ci andavano una volta l’anno perchè arrivava la Juve, l’Inter o il Milan. La visione del pres che amava il calcio ma doveva far quadrare i conti non era la stessa di chi pretendeva sempre la magia, soprattutto dopo essersi affezionato a quelle dell’ultimo Baggio. In tempi in cui una curva può fermare un derby o decidere la sorte di un allenatore, Corioni aveva la tempra del condottiero ma anche la temperanza dell’uomo pratico che, nei momenti di crisi, si fa guidare dal buon senso e che, all’occorrenza, sa tirare dritto per la sua strada senza prestare orecchio agli ignoranti (nel senso che ignorano). O semplicemente agli ingrati.
Mancherà la sua attenzione ai vivai. Il pres di calcio ne capiva moltissimo, una qualità non così scontata in chi il calcio lo fa di mestiere. Sotto la sua gestione, il Brescia Calcio ha sfornato una grande quantità di talenti, alcuni di livello assoluto come Andrea Pirlo. Oggi tutte le grandi società promettono di investire nei giovani, ma solo perchè i top player sono ormai irraggiungibili. Gino Corioni, invece, veniva dalla provincia. Il suo pragmatismo era dettato dalla necessità ma soprattutto dalla passione. Fin dai tempi dell’Ospitaletto, la prima squadra acquistata nei dilettanti e portata in C1, tempi in cui rifiutava sponsor milionari per stampare sulle maglie il logo di un’associazione a scopo benefico, il suo modo di intendere il calcio era quello di un pioniere, ambizioso ma con i piedi per terra. Contavano i soldi, ma anche saperli spendere. Al suo occhio vigile, nel corso degli anni, aveva aggiunto una rete di osservatori di prim’ordine che pescava in una terra dove il calcio è innanzitutto questione familiare che si mastica ogni domenica in uno dei tanti campetti vicino casa o in qualche paesello della provincia. Una provincia, quella di Brescia, piena di impianti piccoli e grandi, ma senza uno stadio.
Il sogno del nuovo impianto è uno di quelli che il pres ha coltivato fino all’ultimo. Brescia, la città, se lo meritava. Eppure non l’ha mai avuto. Anche in questo la parabola di Gino Corioni è emblematica. In Italia chi ha un grande progetto raccoglie subito attestati di stima, promesse e simpatie trasversali. Basta che non pretenda di realizzarlo davvero. È una dura legge, più dura anche di quella del goal.
I goal più famosi dell’epoca di Gino Corioni rimarranno quelli di Roberto Baggio. La Brescia laboriosa e un po’ grigia, timida fino allo sfinimento, non lo ammetterà mai, ma Baggio è stato il suo Maradona. Quegli anni di calcio sopraffino, l’aria che si respirava anche senza volerlo, anche ora che sono irrimediabilmente lontani, non passeranno mai più.
Oggi è lontano non solo il modo di intendere il calcio che professava Gino Corioni, ma anche la sua concezione dello sport e dell’impresa che lo deve sorreggere. La gente che lo osannava ai tempi di Baggio, ma anche di Hagi, Guardiola, Pirlo e Toni, ha dimenticato in fretta una stagione lunghissima e irripetibile. Il discorso vale anche per i grandi gruppi industriali che hanno fatto la storia di Brescia e della manifattura italiana, quelli che in province meno abituate a sporcarsi le mani verrebbero chiamati i “salotti buoni”. Per loro e forse anche per le istituzioni, Gino Corioni è sempre stato un interlocutore non abbastanza credibile. Per uno così, simpatico e a volte sopra le righe ma anche pieno di estro e senso degli affari, non valeva comunque la pena superare divisioni troppo antiche ed investire tutti insieme nel calcio.
Proprio per questo la scomparsa di Gino Corioni ne racconta anche un’altra: quella di una certa Provincia italiana di cui, suo malgrado, Brescia è una sorta di archetipo inconsapevole. Una terra dove si fa impresa e si lavora invece che parlare, e si parla allo sfinimento di imprese che, nonostante tutto il lavoro del mondo, non si completano mai. Forse perchè ogni volta, all’ultimo passaggio decisivo, manca sempre quel quid. Forse perchè andrebbe cercato nel DNA e non tutti, nei momenti decisivi, hanno il coraggio di farlo davvero. È come se la modernità bussasse alla porta e ci trovasse nudi e noi perdessimo tempo a domandarci perchè abbiamo aperto, invece che chiederci perchè non eravamo vestiti.
La generazione di imprenditori à la Gino Corioni aveva tanti difetti, ma non certo la mancanza di coraggio e la giusta dose di ottimismo. Quella che ti spinge ad osare, anche nel bel mezzo di un sistema che, seppur pieno di virtù, ad un certo punto ha cominciato a diffidare delle novità.
Resta una domanda di fondo. Meglio restare incompiuti per sempre o guardarsi dentro e scoprire di non essere destinati a nulla di più? È difficile immaginare cosa avrebbe risposto Gino Corioni, morto l’8 marzo a Brescia all’età di 79 anni dopo una lunga malattia. Di sicuro, non si sarebbe dato per vinto.
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