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L’inno nazionale americano, un divisivo simbolo di unità anche nello sport
Con la Dichiarazione d’indipendenza del 1776, gli Stati Uniti d’America conclusero il cammino verso l’emancipazione dall’impero britannico e divennero il primo paese a sottrarsi al dominio coloniale europeo. È stato autorevolmente osservato che, a differenza della maggior parte dei nuovi stati nazionali – l’Italia o la Germania, per esempio -, all’atto di nascita, la repubblica statunitense si costituì in stato prima di esistere come nazione. Gli Stati Uniti assunsero una precisa fisionomia politica e istituzionale molto prima di definire i propri confini geografici e anche prima che una dottrina nazionalista fornisse la spinta ideale al processo di formazione statuale e di espansione territoriale. Quando i rappresentanti delle tredici colonie originarie proclamarono l’indipendenza e poi ratificarono la Costituzione, non c’era niente che potesse riunirle in una storia o in una cultura comuni. Si deve forse cercare in questa singolarità la ragione dello straordinario investimento degli americani nella fabbricazione di simboli, nella fondazione delle tradizioni e nella (ri)creazione del passato. Gli effetti di tali sforzi ci sono ben noti, dato che a partire dal XX secolo sono confluiti in una cultura di massa onnipervasiva, che ha finito per colonizzare larga parte dell’immaginario collettivo occidentale.
Fra i simboli americani più potenti, cui nelle intenzioni si attribuisce il massimo potenziale unificante, vanno senz’altro annoverati l’inno nazionale e il suo corrispettivo figurato, ossia la bandiera a stelle e strisce. A ispirare i versi sulla “terra dei liberi e dei coraggiosi” a Francis Scott Key, un avvocato con la passione della poesia, fu la vista dell’intoccato vessillo sui bastioni di Fort McHenry, nel Maryland, dopo un lungo bombardamento da parte della Royal Navy nella guerra del 1812. Musicato per ironia della sorte sulle note di una canzone popolare inglese, The Star-Spangled Banner (traducibile con “la bandiera adorna di stelle”) fu adottato come inno da diverse armi dell’esercito, fino a che nel 1916 il presidente Woodrow Wilson ne riconobbe formalmente l’uso. Nel 1931, il Congresso confermò l’ordine presidenziale e infine il 3 marzo di novant’anni fa il presidente Herbert Hoover controfirmò l’atto congressuale e gli USA ebbero ufficialmente il proprio canto patriottico.
Destino dei simboli è tuttavia quello di essere usati per le più opposte motivazioni. Lo si è constatato drammaticamente anche nella profanazione del Campidoglio della scorsa Epifania. I sostenitori di Donald Trump, mentre violavano uno dei templi della democrazia americana e si macchiavano di vari reati, inalberavano la bandiera a stelle e strisce, la stessa che campeggiava nei pressi dei seggi elettorali dove si erano svolte le votazioni i cui risultati i rivoltosi contestavano. Lo sport è uno degli ambiti nel quale è più diffuso – e conseguentemente contrastato e piegato a interessi divergenti – l’impiego dell’inno e della bandiera a scopo metaforico. La questione è tornata di attualità poche settimane addietro, quando si è notato che i Dallas Mavericks, una delle franchigie della National Basketball Association (NBA), avevano smesso la prescritta esecuzione dell’inno prima delle gare di campionato, apparentemente per l’assenza di pubblico dovuta alle restrizioni anti-coronavirus.
Gli Stati Uniti sono uno dei pochi paesi al mondo che diffonde il proprio inno prima degli eventi sportivi non internazionali. L’inno fu suonato la prima volta nel maggio 1862, a una partita di baseball a New York, ma la pratica rimase circoscritta a certe occasioni speciali per gli alti costi d’ingaggio di una banda musicale. Una di queste occasioni speciali capitò il 5 settembre 1918, per l’inizio delle World Series fra i Boston Red Sox e i Chicago Cubs. Era in corso la Prima guerra mondiale e gli americani avevano già sofferto 100.000 morti, il giorno prima un attentato dinamitardo contro il Chicago Federal Building aveva ucciso quattro persone e pochi spettatori si erano recati alla partita, cui assistevano senza entusiasmo e quasi in silenzio. Alla pausa del settimo inning, la banda militare entrò sul diamante ed eseguì The Star-Spangled Banner. Fu un momento di incomparabile trasporto emotivo: i giocatori salutarono la bandiera e così fece il pubblico, che si destò dal torpore e si unì al canto. Nelle gare seguenti, l’abitudine continuò e negli anni Venti e Trenta si diffuse sempre di più, sino a diventare uno standard con la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda.
Nel paese che guida il pianeta, onora la guerra, adora competere e ricerca la vittoria con ogni mezzo, il connubio fra sport e patriottismo non poteva risultare più indissolubile, al pari dell’uso ideologico dello sport per instillare nella popolazione il carattere e i principi necessari a fare dell’America una potenza globale, come già teorizzava Theodore Roosevelt all’inizio del Novecento. Ma con l’istituzionalizzazione e l’universalità venne l’inevitabile contraccolpo. Nei turbolenti, entusiasmanti e tragici anni Sessanta l’inno e la bandiera incisero laceranti linee di faglia nel corpo vivo della società.
Fra i primi, vi fu Muhammad Ali, che rifiutò di andare a combattere in Vietnam e nell’aprile 1967 fu privato del titolo mondiale dei pesi massimi. Mentre l’assurdità della guerra contro i Viet Cong provocava un’opposizione civile sempre più diffusa, mentre i pacifisti appiccavano il fuoco alla bandiera e agli elenchi dei coscritti, mentre si radicalizzava la contestazione giovanile nelle università, la protesta si aprì un varco persino nella fortezza sportiva della conservazione. La National Football League (NFL), che all’indomani dell’assassinio di John F. Kennedy aveva rifiutato di sospendere le gare in segno di lutto, era in prima fila nell’utilizzo nazionalista del football per vendere la guerra in Vietnam. Non erano però pochi i giocatori scettici o contrari, tanto che David Meggyesy, una delle stelle dei St. Louis Cardinals, raccolse numerose firme da inviare al Congresso per chiedere la fine del conflitto. In risposta, la NFL ordinò che tutti i giocatori omaggiassero la bandiera prima di ogni partita: Meggyesy scelse di pubblicizzare il proprio dissenso, disobbedendo all’ordine e chinando la testa all’esecuzione dell’inno nazionale.
Era lo stesso gesto di Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi del 1968, in appoggio al movimento per i diritti civili degli afro-americani. I due velocisti furono messi al bando dal Comitato Olimpico Internazionale, minacciati di morte e costretti per lunghi anni a un’esistenza di precarietà e di stenti. Pochi giorni dopo, il pugile George Foreman, appena fregiatosi dell’oro nella categoria dei massimi, decise di sventolare sul ring una bandiera a stelle e strisce, invece di solidarizzare con i colleghi perseguitati.
Dopo una lunga parentesi di calma almeno apparente, la discutibile norma che impone agli atleti di alzarsi e rivolgersi alla bandiera durante l’inno provocò nel 1996 la protesta del campione della NBA Mahmoud Abdul-Rauf. Nato Chis Jackson e poi convertitosi all’Islam, la guardia dei Denver Nuggets oppose un netto rifiuto all’attesa manifestazione di obbligatorio patriottismo. Dichiarò che le stelle e le strisce in certe parti del mondo non sono il segno della libertà, ma il marchio dell’oppressione e della tirannia. Patì la sua dose di ostracismo e dovette trasferirsi in Florida, dopo che la sua casa in Mississippi fu incendiata. Con l’attacco alle Torri Gemelle, la pressione ambientale si fece ancora più intensa. Nel febbraio 2003, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, lo sconosciuto college di Manhattanville occupò le prime pagine dei quotidiani allorché Toni Smith, studentessa di sociologia e giocatrice della squadra di pallacanestro, decise di voltare le spalle alla bandiera al suono dell’inno nazionale. Nell’epoca ancora infantile di internet, senza la cassa di risonanza dei social media, la storia divenne comunque virale e il sito dell’università fu preso d’assalto da milioni di visitatori. L’indignazione nei confronti della ragazza, la richiesta di punizioni esemplari, le usuali ma inquietanti intimidazioni prevalsero sulle voci che difendevano il suo diritto – pur propagandato come molto “americano” – di poter esprimere il proprio pensiero in piena libertà.
Le frequenti brutalità della polizia e l’ingiustizia razziale che ancora colpisce i neri fu la causa della ribellione di Colin Kaepernick. L’ex quarterback dei San Francisco 49ers – duramente criticato dal neo-presidente Donald Trump, che invitò la NFL a licenziare tutti i giocatori che mancavano di rispetto alla bandiera -, non ha più trovato da allora una squadra disposta a ingaggiarlo, ma ha spuntato un contratto con la Nike per una campagna promozionale dal titolo “Credi in qualcosa. Anche se questo significa sacrificare tutto”. Lo spot ha fatto impennare le vendite del colosso dell’abbigliamento sportivo, ma – in coincidenza con l’emozione suscitata dal movimento Black Lives Matter – forse ha pure indotto la NFL ad ammettere i suoi errori e a incoraggiare i suoi atleti a parlare apertamente e a protestare pacificamente.
Con la NBA che da tempo è schierata a favore della tolleranza razziale e della giustizia sociale, che celebra puntualmente il Martin Luther King Day e il Black History Month, e che asseconda le esternazioni extra-sportive dei cestisti, siamo forse entrati nell’era della “protesta istituzionalizzata”. Resta da vedere se il nuovo paradigma nella gestione delle tensioni politico-sociali nello sport produrrà una normalizzazione e quindi una neutralizzazione del dissenso, o sortirà al contrario l’effetto di popolarizzare la contestazione raggiungendo i dichiarati scopi di inclusione e uguaglianza, o se ancora – in ultima istanza – rimarginerà o acuirà le ferite aperte dal dovuto omaggio all’inno e allo stendardo nazionali.
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