Basket

La resurrezione di Mike, vecchio rivoluzionario

10 Luglio 2017

Rivoluzionari si nasce o si diventa? Mike D’antoni lo è diventato.

Mike è stato un idolo a Milano, era forte ma non è stato amato solo per questo, è stato amato perché lottava, perchè odiava uscire dal campo per un solo minuto e odiava perdere, perché era un capo anche se in squadra c’erano giocatori migliori di lui come Mc Adoo. D’Antoni era un giocatore classico, un bianco che saltava poco (nessuno lo hai mai visto arrivare al ferro per schiacciare, neppure da solo in allenamento al Palalido), che tirava bene, che passava benissimo.

Poi è diventato un allenatore rivoluzionario, ‘seven seconds or less’, tirate in sette secondi o meno diceva ai suoi giocatori e possibilmente tirate da tre che vale un punto in più. A Phoenix aveva Steve Nash (due volte Mvp) e dopo due anni Mike era allenatore dell’anno 2005. Phoenix poi ha mancato la finale a Ovest e Mike è andato a New York.

L’inizio degli anni bui. Con un’unica eccezione, Nel 2008 fa scegliere al draft un ragazzo italiano, Danilo Gallinari, figlio di Vittorio, difensore eccezionale e compagno di stanza di D’Antoni negli anni dell’epopea milanese. Il pubblico della Grande Mela reagisce fischiando, non si fidavano di un giocatore italiano, magari raccomandato. Danilo gioca bene, ma si infortuna un po’ troppo spesso e un giorno fatale il proprietario dei Knicks lo manda a Denver insieme a mezza squadra per prendere Carmelo Anthony. È la fine dei blu arancio, che dopo anni di disastri stanno cercando ora di svendere Anthony che però guadagna oltre 20 milioni all’anno e non lo vuole nessuno. È la fine dell’avventura di D’antoni nella squadra amata da Spike Lee.

Mike andrà poi ai Lakers, altri anni difficili, Kobe è in declino e i risultati non arrivano. D’Antoni fallisce a New York e fallisce a Los Angeles. Inizia a diventare vecchio per gli standard Nba, ha più di 60 anni.

È vecchio ma continua a pensare che il basket del futuro sia il suo. Niente centri grossi (per lui l’ultimo che ha fatto la differenza è Shaq), ma 4 tiratori da tre ai limiti dell’ossessione e un centro mobile che non tira quasi mai e corre su e giù per il campo per prendere i rimbalzi.

Ad Houston la grande occasione. La squadra viene da un 2016 terribile, fuori dai playoff, e concede un’ultima chance a coach Mike che mette Harden a fare il play e chiude l’anno con oltre 50 vittorie. E’ di nuovo coach of the year. Ricevendo il premio inizia il suo discorso ringraziando Dan Peterson e ricordando i suoi 17 anni in Italia. La resurrezione di Arsenio Lupin è compiuta.

In semifinale a Ovest Houston però viene eliminata da San Antonio, la squadra del ‘vecchissimo’, e grandissimo, Popovich, uno che il tiro da tre lo odia. Rimane il dubbio, giustificato, se si possa vincere il titolo tirando quasi il 50% dei tiri totali da tre punti. Per Mike esistono due soli tipi di tiri: da meno di un metro, due punti ma ad alta percentuale, e da oltre l’arco. Nessuna via di mezzo, nessun post basso, nessun ‘mid range shot’. È lui, cresciuto nel basket antico degli anni sessanta del West Virginia, a lanciare una rivoluzione che molti stanno copiando.

Quest’anno Houston si è rinforzata, ha preso Chris Paul che con Harden promette (sulla carta) di poter avvicinarsi agli inarrivabili Warriors di oggi e probabilmente di domani. Se vincesse il titolo, per Mike da Milano sarebbe il trionfo.

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