Basket
“More than an atlete”: in ricordo di Kobe Bryant, uomo indimenticabile
Sei. Il numero che ha ossessionato Kobe tutta la vita era il sei. Sei come i titoli vinti da Michael Jordan, l’uomo che nella sua testa ha sempre sfidato per diventare il miglior giocatore della storia del gioco. Quel gioco che ha amato fin da bambino quando tirava a canestro nei palazzetti italiani seguendo suo padre Joe, gran giocatore che a Pistoia e Reggio Emilia ricordano per un talento eccezionale a cui non corrispondeva la stessa voglia di allenarsi.
Kobe si è fermato a cinque, tre vinti in coppia con Shaq che in quei anni dominava l’Nba e due come vero leader dei lakers in cui ha giocato per 20 anni. Il sesto titolo gli sfuggì nella finale del 2008 con i Boston Celtics, una finale che Los Angeles perse da favorita e che Kobe citava sempre nelle interviste come il suo grande rammarico.
Aveva fretta Kobe, fretta di diventare il numero uno, una fretta che lo ha portato nell’Nba a 18 anni senza andare al college, fretta di vincere, di essere il leader, il giocatore di riferimento del basket mondiale e forse per questo non lo è stato fino in fondo perché il ricordo di Jordan per la sua generazione era ancora troppo vivo.
Proprio la notte prima di morire era stato superato da Lebron James come il terzo realizzatore di tutti i tempi dell’Nba, dietro Jabbar e Karl Malone, e King James lo aveva omaggiato indossando delle scarpe che ricordavano i record di Kobe e lui lo aveva ringraziato via twitter.
Kobe non era troppo amato dai compagni, pretendeva da loro quella ossessione per il basket che in lui era veramente unica, e anche il sodalizio con Shaq non fu mai facile. Ma Kobe era quello che negli States chiamano ‘more than an athlete’ e lo sapeva. Era curioso, conosceva il mondo, non solo la pallacanestro ed essere cresciuto in Italia certamente lo rendeva diverso dai ragazzi dell’Nba che spesso non hanno conosciuto nient’altro che un campetto di basket in un quartiere degradato delle periferie americane.
Sapeva di aver segnato 81 punti in una partita (il secondo miglior score dopo i famosi 100 di Wilt Chamberlain), di aver segnato 60 punti nella partita d’addio reggendosi a malapena in piedi dopo i tanti infortuni dell’ultima parte della sua carriera.
Difficile dire se sia stato uno dei più forti giocatori di basket di tutti i tempi, confrontare tempi diversi è impossibile, in fondo non ha vinto più titoli di Tim Duncan che nella sua stessa generazione ha conquistato cinque anelli nella piccola San Antonio.
Di certo però Kobe è stato un giocatore speciale e un uomo fuori dal comune e forse per questo la sua morte è sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.
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