Basket
Kareem Abdul-Jabbar, sulle spalle dei giganti
Fra qualche giorno, LeBron James svetterà in cima alla classifica dei punti segnati nella NBA. A 38 anni compiuti, il record di segnature impreziosirà uno score personale già ricchissimo di titoli di squadra, riconoscimenti individuali e pietre miliari statistiche, e inevitabilmente rinfocolerà l’annoso dibattito su chi debba essere considerato il più forte giocatore di basket di sempre. Per quanto la disputa possa essere accantonata come insensata e oziosa, ci sono pochi dubbi che nessuno ometterebbe di includere il nativo di Akron nel ristretto novero dei candidati al simbolico riconoscimento.
L’arrivo in cima alla speciale graduatoria è una prodezza fra le più annunciate nella storia dello sport, da che “King James” si è impadronito in sequenza dei record di precocità nel superamento delle soglie dei 10.000, 20.000 e 30.000 punti: da almeno un lustro, tutti quelli capaci di applicare le più semplici regole dell’aritmetica alla sua media-punti in carriera (sopra i 27 punti a gara) sapevano che – senza gravi infortuni – il giorno fatidico sarebbe arrivato. Fra questi, c’è senza dubbio anche l’uomo che occupa la vetta dall’aprile 1984, il leggendario Kareem Abdul-Jabbar, ritiratosi nel 1989 alla bella età di 42 anni con 38.387 punti nella stagione regolare, 5.762 punti nei playoff e 251 punti nelle partite dell’All-Star Game – all’epoca tutti record all-time e ora (o fra poco) tutti nelle mani di James.
Se è dunque indiscutibile che “Il Prescelto” sia un degno successore sul trono del miglior marcatore di tutti i tempi, altra questione è il retaggio che Jabbar ha lasciato e che continua ad alimentare come intellettuale che commenta con lucidità e acume l’attualità americana e soprattutto l’ancora spinosa questione razziale e l’attivismo degli atleti più in vista sui temi politici e sociali. LeBron James è in prima linea anche sui temi della giustizia sociale, ma in un contesto completamente diverso. Fu nel calderone ribollente del denso, formidabile e terribile decennio di Martin Luther King e Malcolm X, dei fratelli Kennedy e della Guerra del Vietnam, della contro-cultura hippie e della Primavera di Praga, del Maggio francese e della Beatlesmania, che il nativo di Harlem Ferdinand Lewis Alcindor Jr., sulla scia di Muhammad Ali, si convertì all’Islam e assunse il nome arabo Kareem Abdul-Jabbar, “il nobile servitore dell’Onnipotente”.
Esposto all’influenza penetrante di sconvolgimenti epocali di cui fu testimone e protagonista, partecipò all’Olympic Project for Human Rights, l’organizzazione fondata dal sociologo nero Harry Edwards allo scopo di mettere in sintonia i campioni dello sport con la lotta per la liberazione intrapresa da tutta la popolazione di colore. Nel breve volgere di pochi anni, completò un percorso personale di maturazione esistenziale, religiosa e politica, che mutò il profondo rancore che nutriva per i bianchi in una travolgente forza propulsiva che mise al servizio della causa comune.
Alle superiori era già alto 2,03 metri e dominando nell’area dei tre secondi condusse la sua scuola a tre titoli dello Stato di New York. Bill Russell, il pivot dei Boston Celtics, era diventato il suo modello. Sul campo ne imitava lo stile intimidatorio e altruista, fuori ne ammirava la capacità di sublimare la rabbia e trasformarla in sprone al cambiamento: “Dobbiamo far sentire i bianchi a disagio, perché è l’unico modo che abbiamo per attirare la loro attenzione”, aveva detto Russell in un’intervista.
Lew prese a seguire le prediche di Malcolm X: “Otterrete la libertà se farete sapere al vostro nemico che siete disposti a tutto per averla. È l’unico modo per conquistarla. Quando vi comporterete così, vi etichetteranno come negri pazzi. Oppure, vi chiameranno estremisti, sovversivi, sediziosi, rossi, radicali. Ma se rimani estremista abbastanza lungo e fai diventare come te un numero sufficiente di persone, allora ottieni la tua libertà”. Prima di lui, nessun leader nero aveva esortato gli afro-americani a diffidare di qualsiasi progresso procurato o concesso dai bianchi, a negare ogni forma di paternalismo e a rivendicare l’uso della forza, l’orgoglio razziale e l’auto-determinazione. Nel febbraio 1965, Malcolm X fu assassinato e il giovane Alcindor si immerse nei suoi scritti. Non vedeva, né sentiva nessuno, concentrato sul basket e sullo studio della storia e della cultura dei neri. Scoprì un mondo diverso, che non gli insegnavano al liceo: il fervore artistico e culturale di Harlem, il nazionalismo nero, gli attivisti e gli scrittori di colore. Soprattutto, incontrò l’Islam e smise di andare a messa. Era stato un cattolico praticante tutta la vita e ora la Bibbia gli pareva priva di senso: aveva prodotto tutta quella gente violenta e livorosa, che linciava i “negri” e dinamitava le loro chiese.
Si formò allora il luogo comune sulle sue scontrosità e introversione. Il pensiero dominante non poteva tollerare che i campioni neri protestassero, che prendessero posizione su una società ingiusta e ghettizzante. I bianchi consideravano mutualmente esclusive le condizioni di avere successo e occuparsi delle piaghe aperte del proprio paese: secondo loro, chi sapeva recapitare una palla nel canestro, mettere ko un avversario o battere un fuori-campo, avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa e passare il tempo a genuflettersi per la gratitudine.
Alcindor era una minaccia anche sul parquet. Chi aveva mai visto un spilungone di due metri e diciassette passare con la disinvoltura di un play-maker e decollare dalla linea del tiro libero per schiacciare con una mano? Per i coach avversari Alcindor era un enigma irrisolvibile e la stessa sopravvivenza del basket parve messa a repentaglio. Le autorità sportive vietarono la schiacciata a livello universitario e la risposta di Alcindor fu di perfezionare il “gancio-cielo”, che divenne l’arma più letale del gioco.
Nell’estate del 1967, i ghetti neri esplosero di rabbia. Distruzioni e scontri con le forze dell’ordine devastarono Atlanta, Boston, Minneapolis, Newark, Detroit, New York: ottantatré persone furono uccise da proiettili, quasi tutte erano civili neri; migliaia furono ferite e oltre 15.000 arrestate. Il Congresso censì otto sommosse maggiori, 33 tumulti gravi e 123 disordini minori. L’arida tassonomia della disperazione non poteva celare che vi avevano preso parte soprattutto giovani afro-americani ostili al dominio dei bianchi, insofferenti alla segregazione nel mercato del lavoro e alla povertà, impazienti di ottenere risposte a bisogni umani incancreniti.
La protesta si sommò al crescente movimento contro la guerra in Vietnam, partito dalle scuole e dalle università. L’America benpensante fu svegliata dalla rivolta dei suoi ragazzi, che spalleggiavano le rivendicazioni dei coetanei neri e ne avanzavano di proprie. A decine di migliaia marciavano per la pace, occupavano le facoltà e i campus, ascoltavano le canzoni pacifiste di Bob Dylan e Joan Baez, bruciavano le cartoline-precetto. Ci furono gesti scioccanti: Norman Morrison, un giovane attivista cristiano, padre di tre figli, si immolò appiccandosi il fuoco di fronte agli uffici del Pentagono, presto imitato dal ventiduenne seminarista Roger Allen LaPorte, suicidatosi nello stesso modo a New York, sotto il palazzo delle Nazioni Unite. Molti cattolici si schierarono contro la guerra, incrinando l’opinione pubblica conservatrice. Il padre gesuita Daniel Berrigan diede alle fiamme i registri di leva in una caserma del Maryland, diramando un toccante comunicato: “Ci scusiamo, cari amici, per aver infranto l’ordine e bruciato carta invece di bambini”.
In aprile, Muhammad Ali non aveva risposto alla coscrizione obbligatoria. Il rifiuto di combattere in Vietnam gli era costato la cintura mondiale dei pesi massimi e la squalifica dalle competizioni. I maggiori atleti di colore si schierarono al suo fianco, incontrandolo in un hotel di Cleveland e parlando alla stampa in sua difesa: Lew Alcindor era presente insieme a Bill Russell e alla stella del football Jim Brown.
Il 23 novembre 1967, a Los Angeles, il prof. Edwards chiamò a raccolta gli atleti di colore per discutere una linea comune in vista delle Olimpiadi del 1968. L’assemblea sembrò proclamare il boicottaggio, ma le posizioni erano più sfumate e fluide. Al termine, la stampa assediò i partecipanti, Alcindor si trovò con decine di microfoni sotto il naso: “Non è deciso niente – spiegò -, abbiamo discusso l’opzione ma non siamo giunti a una conclusione definitiva. Quando vivi in una società razzista e vuoi prendere posizione contro il razzismo, ci sono parecchie cose che puoi fare e una di queste è boicottare le Olimpiadi”.
Tanto bastò perché i giornali e i tifosi lo ingiuriassero, lo chiamassero traditore, chiedessero la sua espulsione dal college, addirittura il bando dal professionismo. Martin Luther King lodò l’iniziativa di Edwards e la sensibilità degli atleti di colore nei confronti dei meno fortunati del loro popolo.
Nei mesi seguenti, apparve chiaro che l’ipotesi di boicottaggio era stata accantonata. Per tutti era un sacrificio troppo grande rinunciare al traguardo cui avevano dedicato anni di vita. La maggior parte degli atleti era soddisfatta di aver sollevato il problema. Nemmeno l’assassinio del reverendo King, il 4 aprile 1968, e le successive agitazioni urbane che lasciarono a terra trentanove persone, di cui trentacinque nere, bastarono a far prevalere le tesi oltranziste. Alcindor invece decise di non andare alle Olimpiadi. Per questo lo vollero in televisione. Fu intervistato da Joe Garagiola, un italo-americano ex-giocatore di baseball e noto repubblicano, che andò diretto al punto: “Perché hai deciso di non rispondere alla convocazione del tuo paese per le Olimpiadi?”.
“Sì, vivo qui, ma non è davvero il mio paese”, fu la secca risposta.
Alcindor fu il solo atleta di spicco a disertare la rassegna olimpica. Era più interessato a laurearsi in tempo, a conoscere il contributo dei giganti della sua etnia alla cultura americana, a sostenere il percorso di crescita dei molti giovani di strada che guardavano a lui come a un modello da seguire.
Aderì al programma di aiuto varato dalla città di New York per i ragazzi dei quartieri bassi e lo fece sapere a tutti con un articolo su Sports Illustrated: «Avrò a che fare con i ragazzi neri. Sono pazzi per il basket, quindi mi apprezzano e si fidano di me […]. Ecco come vedo la cosa: se solo riuscirò a trasformare dieci supposti tossici in dieci cittadini rispettabili, a riportarli in classe, anche solo per imparare un mestiere, allora sarò soddisfatto. Perché se ognuno dei dieci provocherà analoghi cambiamenti in altri dieci e questi ultimi dieci faranno lo stesso con ulteriori dieci, il mio piccolo sforzo darà un enorme contributo al riscatto della mia gente e alla fine delle loro sofferenze. Al confronto, un podio olimpico è una barzelletta» [1].
[1] Alcindor, L., A year of turmoil and decision, “Sports illustrated”, 10 novembre 1969
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