Basket
Il ritorno di Magic Johnson e le metafore del virus
Il 30 gennaio 1996, Earvin Magic Johnson onorò una volta di più il suo soprannome e tornò a essere un giocatore di basket. In una serata piena di magia, di fronte a una massa inverosimile di tifosi increduli, vestì di nuovo i colori giallo-viola dei Los Angeles Lakers e li condusse alla vittoria contro i Golden State Warriors. Erano passati 4 anni, 2 mesi e 23 giorni da che aveva lasciato lo sport che l’aveva elevato a icona planetaria.
In 13 anni di scintillante carriera, aveva rivoluzionato la pallacanestro con uno stile inedito e spettacolare. Ben più alto di due metri, era un play-maker atipico, creativo e leggiadro, che volteggiava sul parquet con un irresistibile sorriso sulle labbra, trasmettendo un’incontenibile gioia di vivere e una straripante passione per il gioco. Possedeva la singolare capacità di esaltare le qualità dei compagni e al contempo di dominare la partita in prima persona. Negli anni ‘80, col pivot Kareem Abdul Jabbar aveva guidato i già gloriosi Lakers a cinque titoli NBA, infrangendo per la prima volta il complesso d’inferiorità che i californiani pativano nei confronti degli ancor più blasonati Boston Celtics.
Al rientro, nel ruolo di ala forte, mandò a referto 19 punti, 10 assist e 8 rimbalzi, molto vicino alle medie che aveva tenuto prima del ritiro. Con 12 chili di troppo, un torace più prominente e braccia più massicce, era però un giocatore diverso in un campionato diverso. Fu chiaro un paio di sere dopo, quando i Lakers furono impietosamente sopraffatti dal nuovo sovrano assoluto Michael Jordan e dai suoi Chicago Bulls, che venivano da ben 18 vittorie di fila ed erano nel bel mezzo dell’incontrastato dominio che avrebbe fruttato ben sei campionati in otto anni. Magic fu sottomesso da Dennis Rodman, che lo sottopose a una marcatura ruvida e martellante: «Chi se ne frega se ha l’Aids, il cancro o il morbillo, da me può solo aspettarsi di essere picchiato ben bene», commentò la brutale ala dei Bulls, dopo aver ammucchiato ben 23 rimbalzi e ridotto all’impotenza l’illustre rivale.
Lo spietato trattamento ricevuto depositò nell’animo di Magic una sensazione dolceamara. I tempi dello Showtime non sarebbero tornati e le lancette dell’orologio non potevano camminare a ritroso, ma la lunga battaglia poteva considerarsi vinta. Quando aveva svelato di aver contratto l’HIV, il 7 novembre 1991, anche il mondo era diverso. Solo un decennio prima, una sindrome sconosciuta era stata clinicamente definita. La causa era poi stata individuata nel virus della immunodeficienza umana (HIV), da cui può originarsi l’Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita. L’origine della malattia fu rintracciata nella mutazione di un virus comune nelle scimmie dell’Africa centrale, che operò il salto di specie forse all’inizio del Novecento nell’Africa sub-sahariana, si diffuse poi in Europa tramite l’arrivo di persone contagiate in Belgio e in Francia, per sbarcare in America con l’immigrazione degli haitiani e infine colonizzando il resto del globo. Non ci volle molto per comprendere che la trasmissione avveniva per via ematica, attraverso i rapporti sessuali, durante la gravidanza, tramite la condivisione di siringhe e le trasfusioni di sangue infetto.
Con voce ferma e pacata, Magic aveva sentito il bisogno di precisare di non aver sviluppato l’Aids, che aveva ancora intenzione di vivere a lungo e che la moglie era risultata negativa al test. Era allora opinione diffusissima che la positività al test fosse un’inappellabile sentenza di morte. Che il virus avrebbe imperversato subdolamente mietendo vittime su vittime, tanto che l’insigne evoluzionista Stephen J. Gould si era spinto a scrivere sul New York Times che il morbo avrebbe potuto uccidere un quarto di noi, quel “noi” non essendo riferito a “noi” americani, a “noi” italiani o a “noi” ugandesi, ma a “noi” esseri umani. La prospettiva dell’apocalisse fu sul punto di sconvolgere le relazioni umane. Negli Stati Uniti, l’intellettuale conservatore William F. Buckley Jr. propose che i malati di Aids fossero tatuati a scopo d’identificazione, mentre l’adolescente emofiliaco Ryan White, infettato da una sacca di sangue contaminato, fu costretto a un’estenuante causa legale per vedersi riconoscere il diritto di frequentare la scuola; il francese Jean-Marie Le Pen ne approfittò per rinforzare la sua campagna anti-immigrazione e il primo ministro del Sud Africa – evocando l’alto tasso di contagi fra i minatori importati dai vicini paesi neri – dichiarò che i terroristi avevano ora «un’arma più terribile del marxismo: l’Aids». Il paleo-conservatore Pat Buchanan e il predicatore fondamentalista Jerry Falwell affermarono che l’Aids era la sanzione divina per la bancarotta morale degli Stati Uniti, echeggiati dai cardinali di Brasilia e Rio de Janeiro, che rinforzarono il collegamento ideale fra diffusione del virus, castigo di Dio e attribuzione di una colpa segreta ai pazienti. Così come nel passato erano stati trattati la peste, la lebbra e anche il cancro, la narrazione sull’Aids riprese il discorso metaforico della malattia come giudizio sulla collettività e punizione per le trasgressioni individuali.
Il panico da fine dei tempi conviveva però con la contraddittoria convinzione che il virus riguardasse solo certe categorie di persone – in America la si chiamava anche la “malattia delle 4H”, perché si pensava riguardasse solamente gli haitiani, gli omosessuali (“homosexuals”, in inglese), gli emofiliaci (“hemophiliacs”) e gli eroinomani (“heroin users”). L’annuncio di Johnson di aver contratto il virus attraverso rapporti eterosessuali non protetti, rese chiaro che il pericolo del contagio riguardava tutti, non solo i gay bianchi, come si credeva allora, quando la rivista Time aveva scioccato il pubblico con la foto dell’agonizzante attivista gay David Kirby ed erano deceduti l’attore Rock Hudson e la rockstar Freddie Mercury. I telefoni dei centri di aiuto furono tempestati di richieste di informazione e le persone si misero in fila per eseguire il test, letteralmente a centinaia di migliaia. Sui giornali si lodò il coraggio di Magic, la sua disponibilità a parlare in pubblico di temi così scottanti, a spendere il suo ascendente per solidarizzare con i malati e liberarli dallo stigma sociale. Gli attivisti pensarono che l’idolo di milioni di giovani sarebbe stata la persona giusta per sensibilizzare la minoranza di colore sui pericoli dell’Aids. Pur sproporzionatamente afflitta dal virus per i noti svantaggi socio-economici (disoccupazione e sottoccupazione, precarietà abitativa, inadeguato accesso alle cure, ecc.), la comunità nera guardava con sospetto o noncuranza alle iniziative di educazione e di profilassi, anche a causa del prevalente racconto dei media americani che associavano la malattia ai bianchi omosessuali. Molti si convinsero che l’ex giocatore stesse salvando più vite dei programmi federali di assistenza e di cura, cui peraltro aderì, quando il presidente George Bush lo nominò nella National Commission on AIDS.
L’impegno di Magic fu incessante anche perché il suo stato di salute non peggiorava, anzi era addirittura in miglioramento. Aveva ancora il fisico del campione, come poté constatare quando a furor di popolo fu invitato a partecipare all’All Star Game del febbraio 1992 e fu poi incluso nel Dream Team che dominò le Olimpiadi dell’estate successiva contro avversari che gli chiedevano l’autografo. Cullò il sogno di tornare e riprese ad allenarsi con i Lakers, giocando nelle partite di pre-season. Un ben più giovane Anthony Fauci, già direttore dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive, dichiarò: «Se si sente abbastanza in forma da giocare, dovrebbe giocare. Fare le cose che ci piacciono porta beneficio all’organismo e non ci sono ragioni mediche o epidemiologiche che dovrebbero consigliarlo a rinunciare». Ce n’erano però di natura – per così dire – sociale e sportiva: molti colleghi mugugnarono, esprimendo le loro perplessità, prima a mezza voce e poi apertamente. Karl Malone, anch’egli stella della squadra che aveva conquistato l’oro olimpico, fu esplicito con i giornalisti: «Guardatemi, sono pieno di croste e tagli. È così alla fine di ogni partita e di ogni allenamento, come si può sostenere che non sono a rischio?». Il fuoriclasse degli Utah Jazz dette voce ai timori dei molti che non avevano osato parlare, per l’entusiasmo che il clamoroso rientro aveva suscitato nel paese. Gli specialisti della Johns Hopkins University – la stessa che oggi fornisce le statistiche più accreditate sul coronavirus e che all’epoca aveva steso i protocolli anti-HIV adottati dalla NBA – spiegarono che l’eventualità di contagio sul campo era estremamente remota, ma che il rischio zero non poteva essere assicurato in alcun modo. David Stern, commissioner della Lega, evitò ogni commento pubblico sulla questione e il suo silenzio fu più eloquente di mille parole.
Si levarono voci dissonanti dal coro di generale approvazione. Già da tempo, diversi giornali avevano criticato l’imprudenza sessuale di Johnson, la sua abitudine a prendere parte a “orge selvagge” e l’irresponsabilità con cui aveva messo a repentaglio la salute della moglie. Si erano abbandonati a descrizioni voyeuristiche della sua scandalosa vita sessuale e qualcuno aveva pure plaudito alle statistiche che segnalavano la diminuzione degli amplessi occasionali a seguito della sua sieropositività. Magic capì l’antifona: comprese di non essere gradito e si fece da parte. In settembre, aveva scritto al presidente Bush per dimettersi dalla commissione nazionale sull’Aids, denunciando il disinteresse presidenziale per le raccomandazioni che il panel di esperti recapitava periodicamente alla Casa Bianca. Per gli anni a venire fu l’indefesso portavoce di medici ed epidemiologi per spiegare ai giovani, specialmente ai neri e alle minoranze latino-americane, l’importanza delle giuste precauzioni per rendere il sesso sicuro e minimizzare le occasioni di infezione. Il parquet l’avrebbe calcato solo in occasione delle esibizioni di beneficienza organizzate dalla sua fondazione, fino a quel giorno di gennaio di 25 anni fa. Il clima era ancora cambiato, non era più uno zombie da tenere a distanza. Tutti avevano voluto che rientrasse, compreso Karl Malone. I due si trovarono di fronte il 4 febbraio, al Forum di Los Angeles e i Lakers vinsero 110-103, grazie anche ai 21 punti di Magic, che fu soprattutto grato di constatare che Malone non aveva più remore nei suoi confronti. Alla fine della stagione, conclusa con l’inopinata uscita al primo turno dei play-off e pure con qualche malumore proveniente dai giovani del roster, oscurati dall’ingombrante aura del campione ritrovato, Magic si ritirò, questa volta definitivamente. Era soddisfatto del suo livello di gioco, aveva mostrato ai figli cosa era ancora in grado di fare e soprattutto era tornato alle sue condizioni. Adesso era il momento di guardare avanti.
Oggi Johnson è ancora un importante ambasciatore della lotta contro l’Aids e un ricco uomo d’affari. Anche grazie al suo contributo, l’Aids è una condizione gestibile per molte persone negli Stati Uniti e in tutto il mondo, pur essendo ancora una causa di morte non proprio trascurabile specialmente nei paesi più poveri. La piccola Hydeia Broadbent, cui i medici avevano pronosticato appena cinque anni di vita e il cui pianto disperato Magic aveva provato a consolare in una delle tante iniziative a favore dei sieropositivi, è adesso una motivata attivista e – come l’ex campione giallo-viola – continua a ingoiare le sue pillole giornaliere per tenere a bada il virus. Anthony Fauci è tutt’ora in prima linea contro le malattie infettive e guida l’azione federale nel contrasto al COVID-19. Proprio in questi mesi è tornato in contatto con Earvin Magic Johnson, il quale non ha mancato di denunciare che gli afro-americani continuano a non ricevere adeguate cure mediche e a non essere coperti dalle assicurazioni sanitarie, da cui dipende la possibilità di accedere a trattamenti sanitari di qualità. Come conseguenza, analogamente a quanto succedeva con l’HIV trent’anni addietro, nelle maggiori città degli Stati Uniti i neri muoiono di coronavirus in numero assai maggiore rispetto agli altri americani.
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