Basket
Basket, Islam, NBA e integrazione
In una moschea alle porte di Boston non ci aspetteremmo di incontrare un gruppo di persone riunite a guardare i playoff della NBA, la più importante lega cestistica del mondo. È quanto succedeva nel 2012 negli spazi della Islamic Society of Boston, dove un gruppo di fedeli assisteva a una partita della squadra rappresentante la città: una scena abbastanza comune, visibile in molti centri islamici negli Stati Uniti, testimone di un interesse profondo della comunità musulmana per la pallacanestro.
In un reportage di Omar Sacirbey per il Wahington Post, un giovane di Houston, Musab Abdali, dichiarava di aver visto un campo da basket in quasi tutti i centri islamici che ha visitato negli Stati Uniti. Campi ricavati negli spazi delle strutture religiose, che talvolta rappresentano un’innocente tentazione per i fedeli, come ricordava Omer Abdelkader, cresciuto nel Massachusetts:
“A volte scappavamo dalle preghiere per giocare a pallone. Non doveva essere così, ma i ragazzi amano il basket.”
Il legame fra una delle comunità religiose il cui percorso di integrazione nella società statunitense appare più complesso e uno degli sport americani per eccellenza può apparire curioso. Sono diversi i fattori che hanno contribuito a crearlo: in primis il poco spazio e la poca attrezzattura necessari alla pratica del basket. I campi in cui si gioca la pallacanestro sono più piccoli rispetto a quelli degli altri sport più diffusi negli Stati Uniti, tanto che anche strutture più piccole possono permetterseli. In più, bastano un pallone e due canestri, talvolta anche uno solo.
L’intreccio fra l’Islam e la comunità afroamericana
Un elemento importante in questo legame è la frequente convivenza e l’incontro tra la comunità islamica e quella afroamericana, che ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la pallacanestro. Il legame fra le due comunità è talvolta una vera e propria sovrapposizione: circa il 30% degli afroamericani è di religione musulmana. Uno di questi è Shareef Abdur-Rahim, stella dei Vancouver Grizzlies e degli Atlanta Hawks nella NBA a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo. Abdur-Rahim è cresciuto a Marietta, in Georgia. Figlio di un imam, ha ricevuto un’educazione islamica da una famiglia devota.
Lungo il corso degli anni, il numero dei cestisti musulmani nella NBA è andato crescendo, grazie anche alle numerose conversioni di molti cestisti afroamericani. Fra i tanti, hanno abbracciato la religione musulmana, cambiando i nomi con cui erano precedentemente noti, Mahmoud Abdul-Rauf, Larry Johnson, Jamaal Abdul-Lateef Wilkes, Mahdi Abdur-Rahman e soprattutto Kareem Abdul-Jabbar.
Abdul-Jabbar è stato uno dei più grandi cestisti della storia della NBA e ancora oggi è il miglior marcatore nella storia della lega. Nato a New York nel 1947, è stato visto come un predestinato già dai primissimi anni di college, ancora prima di esordire con la squadra dell’Università della California, gli UCLA Bruins.
La conversione di Kareem Abdul-Jabbar
La precoce fama ha portato il giovane Abdul-Jabbar, allora noto come Ferdinand Lewis Alcindor Junior, a profonde riflessioni. L’attitudine al pensiero e al ragionamento lo accompagnerà lungo tutta la vita fino al presente, perfezionando la sua figura intellettuale: un percorso per certi versi simile a quello degli ex calciatori Jorge Valdano e Tostão.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Lewis Alcindor è già molto noto in tutti gli Stati Uniti. Il ragazzo fatica a sentirsi a suo agio sotto le luci della ribalta e comprende presto quale sia il problema nella costruzione della sua figura pubblica:
“Ho capito che il Lewis Alcindor che tutti tifavano non era la persona che immaginavano (egli fosse). Volevano che fossi il chiaro esempio dell’uguaglianza razziale. Il ragazzo copertina che mostrava come chiunque, da dovunque venisse, indipendentemente da razza, religione o condizione economica, potesse raggiungere il sogno americano. Per loro, io ero la prova che il razzismo fosse un mito.”
In questi momenti la riflessione sulla sua persona, sulle sue origini africane e sulle condizioni della comunità afroamericana negli Stati Uniti si intrecciano con il suo percorso di fede, intrapreso ai tempi dell’università, che lo porterà a convertirsi all’Islam nel 1971:
“Sono nato Lewis Alcindor, ora sono Kareem Abdul-Jabbar. […] Ero Lewis Alcindor, il pallido riflesso di ciò che l’America bianca si aspettava da me. Ora sono Kareem Abdul-Jabbar, la rappresentazione della mia storia africana, della mia cultura e delle mie convinzioni.”
La conversione all’Islam di Kareem Abdul-Jabbar diventa così, oltre che un percorso di fede, un viaggio nel passato, attraverso le sofferenze e la schiavitù dei suoi antenati, della sua famiglia e della sua comunità:
“L’adozione di un nome nuovo è stata la continuazione del rifiuto di tutte le cose che nella mia vita erano connesse alla schiavizzazione della mia famiglia e del mio popolo. Alcindor era un proprietario terriero francese delle Indie Occidentali che era stato il padrone dei miei antenati. I miei avi erano Yoruba, un popolo che veniva da quella che oggi è la Nigeria. Portare il nome del padrone della mia famiglia mi è parso un disonore. Quel nome era come una cicatrice di vergogna.”
La scelta dell’Islam trova conferma anche nel fatto che circa il 15-30% degli schiavi importati dall’Africa fossero musulmani. Non è stato però questo l’elemento decisivo nella conversione di Abdul-Jabbar. Il percorso di avvicinamento alla fede è stato tormentato, volto alla ricerca di un complesso equilibrio fra la sua ricerca personale e i dettami dell’Islam.
La scelta della conversione affonda ancora in quel desiderio di rifiutare ogni elemento della sua persona che fosse connesso, secondo il suo pensiero, con la schiavizzazione del suo popolo. La religione cristiana, che pure ha influenzato la sua educazione da ragazzo ed è rimasta il credo dei suoi genitori, non ha fatto eccezione:
“Più studiavo la storia e più ero deluso dal ruolo che la Cristianità ha avuto nel soggiogare il mio popolo. Sapevo, ovviamente, che il Secondo Concilio Vaticano del 1965 aveva dichiarato la schiavitù ‘un’infamia’ che ha disonorato Dio e che è stata veleno per la società. Ma per me era troppo poco e troppo tardi. Il fatto che la Chiesa non abbia usato il suo potere e la sua influenza per fermare la schiavitù ma l’abbia invece giustificata come qualcosa di connesso al peccato originale mi ha fatto arrabbiare. Alcune bolle papali hanno condonato la schiavitù dei popoli nativi e il furto delle loro terre.”
Ovviamente, queste parole non sono una condanna e un attacco diretti al Cristianesimo o ai cristiani in sé, ma un’aspra critica del comportamento passato e delle decisioni delle istituzioni ecclesiastiche:
“Molti cristiani hanno rischiato le loro vite e quelle delle loro famiglie per combattere la schiavitù, che non sarebbe terminata senza il loro apporto, ma trovavo difficile allinearmi con le istituzioni culturali che hanno chiuso un occhio su comportamenti tanto oltraggiosi, che violavano direttamente le loro stesse più sacre convinzioni.”
La conversione di Kareem Abdul-Jabbar negli anni Settanta è stata un affare pubblico per via della celebrità del personaggio e della sua capacità di pensare e costruire la propria personalità. La sua storia mostra bene quali intrecci ci siano e si possano creare tra la comunità afroamericana degli Stati Uniti e le istanze dell’Islam: due elementi appartenenti entrambi ormai a pieno titolo alla società americana, che si trovano ancora su un lungo e complesso percorso verso un’accettazione completa.
La NBA e i cestisti musulmani
La NBA è una lega di pallacanestro ma è anche un microcosmo di persone, incontri e fatti umani, che corre forse qualche passo più avanti rispetto al resto della società americana. A partire dagli anni Ottanta e Novanta, grazie anche al sempre più massiccio arrivo di giocatori stranieri da ogni parte del mondo, il numero dei cestisti musulmani è sempre stato consistente. Alcuni di questi hanno raggiunto un successo enorme, diventando degli autentici role-model per la loro comunità religiosa e non solo. La complessità di questo ruolo è evidente già dal vissuto e dalle parole di Abdul-Jabbar: da una parte alcuni componenti della comunità islamica sono presentati sotto una luce positiva e alcuni aspetti della loro cultura sono portati in primo piano, il che costituisce anche uno dei motivi per cui la pallacanestro è amata dai musulmani stessi; dall’altra, esiste il paradossale rischio che l’emergere di alcune di queste figure eccezionali nello sport nasconda, proprio attraverso il loro successo, le problematiche più profonde relative alle difficoltà di integrazione fra questa comunità e il resto della società statunitense.
Una figura ancora oggi molto celebre e amata è il nigeriano Hakeem Olajuwon, leggendario centro degli Houston Rockets, che ha disputato diverse partite digiunando durante il mese del Ramadan. Cresciuto in Nigeria, ha trovato la sua consacrazione negli Stati Uniti, dove è diventato uno dei cestisti più importanti nella storia della NBA. Molto devoto, non ha mai nascosto la propria fede, tentando di presentarla nel miglior modo possibile al mondo. Nel febbraio 1995 ha vinto il premio di miglior giocatore del mese, senza bere e senza mangiare durante il giorno, in ossequio alle regole del Ramadan.
Più complessa è invece la storia di Mahmoud Abdul-Rauf, stella dei Denver Nuggets degli anni Novanta. Nato Chris Jackson, Abdul-Rauf si è convertito all’Islam durante gli anni dell’università. Proprio come Abdul-Jabbar, anche Abdul-Rauf ha cominciato a interessarsi all’Islam dopo la lettura de L’autobiografia di Malcolm X, che racconta la storia della conversione di uno dei più grandi leader afroamericani del secolo scorso. Questa opera pare a posteriori un tassello fondamentale dell’intreccio fra l’elemento afroamericano e quello musulmano, dato che Malcolm X, come afferma lo stesso Abdul-Jabbar, era insieme a Martin Luther King uno dei pochi ma grandi riferimenti e modelli per la comunità afroamericana degli anni Sessanta.
Abdul-Rauf è stato un grande marcatore e un giocatore molto elegante, ma è spesso ricordato per uno scontro che ha avuto con la stessa NBA nel 1996. Nel marzo di quell’anno, Abdul-Rauf si è rifiutato di partecipare all’intonazione dell’inno degli Stati Uniti prima di una partita, affermando che esso fosse un simbolo di oppressione e tirannia. Dopo una breve sospensione, Abdul-Rauf ha raggiunto un accordo con la lega in base al quale avrebbe partecipato all’esecuzione dell’inno, ma in compenso avrebbe avuto il diritto di guardare per terra e pregare durante la sua intonazione. Il giocatore ha utilizzato quei momenti per pregare per gli oppressi di tutto il mondo, risolvendo la controversia ma non ritrovando mai il rapporto con la tifoseria di Denver, che si era schierata nettamente contro le sue posizioni.
A dispetto di questo incidente, la NBA è generalmente parsa un microcosmo inclusivo per i cestisti musulmani e non solo. Lo confermano le parole di diversi giocatori, che Marc J. Spears ha raccolto per The Undefeated. Tolte alcune situazioni spiacevoli, la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di essersi sentita accettata e rispettata. In linea con questa tendenza, il Muslim Ban, deciso nel 2017 dall’ormai ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump contro i cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana, ha generato delle forti reazioni di opposizione fra gli addetti ai lavori della lega. Particolarmente attivo nella campagna contro la decisione di Trump è stato Steve Kerr, ex cestista e attuale allenatore dei Golden State Warriors.
I tornei di basket e la squadra femminile della scuola Salam
Con il passare degli anni la comunità musulmana non ha forse avuto più stelle del calibro di Abdul-Jabbar e Olajuwon in cui riconoscersi, ma la passione per il basket non è mai venuta a mancare. Lo testimoniano i tantissimi tornei organizzati dai centri islamici negli Stati Uniti, fra cui spicca quello di Chicago, in grado di attrarre un grande numero di squadre. La partecipazione a questi tornei è aperta a tutti e lo scopo è di costruire nuovi legami fra le diverse comunità, oltre che presentare sotto una luce positiva l’Islam e i suoi fedeli, che non godono spesso di un’altissima considerazione nell’opinione pubblica statunitense.
Nella direzione del dialogo e dell’integrazione si muove anche la scuola musulmana Salam di Milwaukee, in Wisconsin, che ha deciso di creare una squadra femminile di basket. Dopo un periodo di tentennamento iniziale, la formazione della squadra ha portato una nuova dimensione nelle vite delle studentesse che, nonostante alcuni episodi spiacevoli avvenuti durante le partite del campionato scolastico, stanno perseguendo un processo di integrazione, mutua conoscenza e accettazione giocando a pallacanestro. Un esempio di ciò è il rapporto instauratosi tra le studentesse e la loro allenatrice Kassidi Macak, un’ex cestista e impiegata di 26 anni, per la quale questo lavoro ha rappresentato il primo momento di contatto con l’Islam. In prima battuta, Macak ha chiarito alle sue giocatrici di non conoscere la loro religione, chiedendo il permesso di fare “domande stupide” a riguardo. A partire dalle conversazioni e dal dialogo fra l’allenatrice e le giocatrici si è creata una situazione di grande rispetto reciproco, che ha contribuito a creare un ambiente positivo non solo per giocare a pallacanestro, ma anche per costruire delle sane e consapevoli relazioni umane, che sono alla base di ogni processo di integrazione e convivenza.
La pallacanestro può essere quindi un ottimo punto di incontro fra la società americana e la minoritaria comunità musulmana del Paese: la pratica di questo sport può diventare un fatto culturale che può facilitare e incentivare il dialogo e la creazione di ambienti e relazioni positive. La chiave sta forse nel passare il più tempo possibile insieme, conoscersi, confrontarsi e talvolta anche scontrarsi: nella sostanza parlarsi. Certamente, tutto questo non può essere l’unica soluzione a processi grandi e complessi come quelli dell’integrazione delle persone e del dialogo fra comunità culturali e religiose diverse, ma è dalle piccole cose, dalla quotidianità più banale, che, anche grazie al tempo, si costruiscono le cose più grandi.
Foto: Ferdi Nusaputra / Unsplash.
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