Arrampicata
Perché il Melloblocco è un patrimonio da difendere
Articolo di Amedeo Cavalleri, tratto da Alpinismi.
«Al Melloblocco non si va per arrampicare». Ho sentito spesso dire in modo per lo più scherzoso da quelli che ci erano andati negli anni precedenti al 2017, anni in cui io non ebbi il piacere di partecipare, in quanto non arrampicatore prima e per motivi lavorativi poi. Oggi, a otto mesi dal mio primo Melloblocco, posso dire che condivido quella frase in tutta la sua semplicità e forse superficialità: perché è sì una frase buttata lì, ma in realtà racchiude quello che per molti, come me, è quell’evento.
Ma prima di tutto bisogna fare un’ammenda. Lo so, lo devo. Per essere più corretto cambierò quella frase in: «Al Melloblocco non si va solo per arrampicare». Se volessimo un luogo dove provare i movimenti su roccia ci sarebbero luoghi ben più vicini, come la Val Daone in Trentino-Alto Adige, o tanti altri sparsi in tutta Italia; se fosse «solo per arrampicare in Val di Mello» si potrebbero scegliere ben altri periodi, sicuramente meno affollati, per provare i numerosi problemi disseminati sui blocchi di tutta la valle.
Ma allora cosa mi ha portato a partire un venerdì mattina, con la mia ragazza tornata il giorno prima dalla Spagna appositamente per l’evento e con davanti 3 ore e mezza di macchina, poche per qualcuno, ma tante per me che odio guidare, alla volta della Val Masino? Mi ha mosso la consapevolezza che, se per un climber la giornata perfetta è passare tutto il dì immerso nella natura, a scalare e parlare d’arrampicata, lassù avrei trovato tutto questo moltiplicato per tre giorni e diecimila persone. Avrei sperimentato, anche se in versione molto ridotta, cosa provavano quei climber del passato e di cui tutt’ora leggo le storie, che passavano le loro giornate a pensare a nient’altro se non all’arrampicata.
Arrivammo poco prima di mezzogiorno con una lieve pioggerella ad accoglierci, abbastanza tenue da permetterci di montare la tenda vicino a quelle degli altri che erano arrivati il giorno precedente. Le tende del mio gruppo erano disposte a semicerchio intorno ad una grande tenda comune creata dai miei compagni d’avventura con dei teli cerati sostenuti da due alberi mediante corde. Questa “tenda comune”, che da un lato affacciava sul fiume, merita uno spazio particolare nel mio racconto in quanto è dove si consumarono la maggior parte dei pasti e trovammo riparo nei momenti di pioggia più intensa. Sotto di essa, seduti sui crashpad intorno a due fornelli da campo, consumammo cibo, birre e racconti, e intrecciammo storie che scorrevano come tra amici appena ritrovati dopo anni, anche se così non era.
Quel pomeriggio a tenda montata e corpo sfamato, mi diressi verso il centro polifunzionale per iscrivermi allo scopo prioritario di ottenere la maglia dell’evento, farmi un giro tra gli stand e guardare le qualificazioni del Campionato Italiano di Boulder. Bisogna dire che il Melloblocco, pur essendo l’evento di boulder più grande d’Italia, è lo specchio di una disciplina tutt’oggi praticata da una community relativamente piccola, ed è per questo facile, girando per gli stand, incontrare quelli che noi climber brocchi arriviamo quasi a venerare per le loro doti e i loro successi; il fatto di potersi facilmente imbattere in personaggi come Stefano Ghisolfi, Alex Megos o Charles Albert, fa certamente piacere.
Per tutta la giornata la pioggia alternò momenti di varia intensità dando comunque la possibilità ai più, complice anche l’elevata gripposità del granito della valle, di provare qualche blocco. Verso sera l’acqua iniziò a cadere impietosa facendoci più volte tentennare dal percorrere la distanza che dal campeggio ci avrebbe condotto al tendone principale, ma la consapevolezza che l’evento si svolge una volta l’anno, la voglia di divertirci e il desiderio di conoscere altri arrampicatori ci fece avventurare sotto il diluvio.
Conoscere climbers, possibilmente del sesso opposto, era in particolare l’obiettivo del mio amico Davide che, non abbattuto dai fallimenti della sera precedente, era lanciato alla conoscenza del mondo femminile presente al Melloblocco. Alla fine una ragazza la conobbe: Francesca. Ma bisogna a onor di storia precisare che, complici diversi fattori tra cui il dover partire il giorno successivo, non concluse un gran che. A oggi Davide e Francesca continuano a vivere la loro storia d’amore nata quel giorno e tutti noi ci chiediamo se sia il frutto di improbabili e davvero fortunate congetture del destino, o della magia del Melloblocco.
La mattina fu il sole che, battendo sulle nostre tende e facendo ardere i loro interni, ci fece da naturale sveglia obbligando ad alzarsi anche quelli col sonno più tenace. La colazione fu anch’essa figlia della parola d’ordine della manifestazione: la condivisione. Ognuno mise la sua parte così tutti potemmo godere di una colazione completa mentre ancora una volta i discorsi si dilungavano. Con la calma delle giornate di festa, ognuno scelse il suo destino: chi andò a far corda al Sasso Remenno con ragazzi conosciuti la sera prima e ricongiunti a noi per la colazione e chi, la maggioranza di noi, si mosse come un’orda verso il paese da dove il servizio di navette predisposto per l’evento ci avrebbe portato in Val di Mello. La Valle è magnifica e non serve decantarla: basta dire che è la cornice perfetta per un evento unico come il Melloblocco. Quel giorno era in festa. Maglie di tutti i colori si muovevano andando a decorarne i grossi massi di granito nero.
Noi decidemmo di andare verso il settore “Sas de la Pulenta” sia per la presenza di ragazzi che già conoscevamo, che per la possibilità di salire su blocchi di ogni grado, anche adatti per i neofiti della disciplina. Questa è un’altra particolarità del Melloblocco, infatti. Se molti raduni sono rivolti esclusivamente a praticanti stabili del nostro sport, quello nella Val Masino è un evento per tutti. Per esempio, anche per coloro che muovono i primi passi nel mondo dell’arrampicata.
Arrivati al settore prescelto, svolto un piccolo riscaldamento, iniziammo a scalare. Ogni linea era tormentata da una moltitudine di climber che si accalcava alla base nell’attesa di provarla, mai pressando, ingannando l’attesa discutendo della methode, facendo amicizia, scambiando consigli. Il tutto sembrava vorticare in un’aria che odorava di natura, magnesio, passione. Ogni scalatore a Melloblocco diviene un tuo amico, anche se della stragrande maggioranza di quelli con cui ho parlato non conosco il nome, ricordo le loro facce e so che ognuno mi ha lasciato qualcosa. Chi un consiglio, chi una risata derivante da una battuta.
Sotto ogni linea c’erano almeno tre crashpad e altrettanti spotter, e sia gli uni che gli altri roteavano con estrema facilità. Quando uno veniva meno era prontamente sostituito da un altro. Dunque i discorsi, i consigli, i materassi e la magnesite, tutto era condiviso; un fatto quasi poetico per un gruppo che, come il mio e tanti altri, fa della condivisione il fattore chiave della propria storia nel mondo dell’arrampicata.
Quel giorno ci fermammo solo per un veloce pasto nato ancora una volta dall’unione delle provviste di tutti. Cioè, quanto bastava per permettere alle dita e agli avambracci di riposare per poi ricominciare ad avvinghiarci sui massi e far scorrere magnesite senza accorgersi che quello che scorreva più veloce era il tempo. Solo il cielo riuscì ad imporci di andarcene. La pioggia, cadendo battente, ci spinse di corsa verso le navette superaffollate.
La giornata non era però ancora finita. La tranquillità di una doccia, la cena e poi di nuovo sotto la pioggia diretti al tendone principale per la grande festa dell’ultima sera. Mentre fuori ancora scorreva l’acqua, sotto il tendone scorrevano invece la birra e la musica, e ancora una volta si creava la complicità. Di tanto in tanto nasceva qualche pogo spontaneo, goliardico e non violento, e ricordo che il mio amico Giorgio non ne perse uno, saltando da spalla a spalla, a ritmo di musica. Non ricordo fino a che ora si protrasse la serata, ma un po’ alla volta, in piccoli gruppi, iniziammo a ritirarci alle tende.
Al mattino il rituale fu uguale al giorno precedente, ma con evidenti postumi del giorno prima; qualcuno più in forma ne approfittò per provare qualche altro blocco, altri più provati optarono per un pranzo in paese. Nel pomeriggio la manifestazione si avviò al termine con la consueta estrazione dei premi, nella quale i pochi rimasti ereditarono i numeri di quelli che avevano preferito partire prima per evitare la coda di rientro, che comunque non venne da me riscontrata. Per tutta la giornata e in quelle successive la frase più sentita fu: «Non vedo l’ora che arrivi la prossima edizione», frase rievocata nel corso di tutto l’anno che trascorre tra un Melloblocco e l’altro.
Eppure, e qui arriva la parte più dolorosa, negli ultimi anni, questa voglia si è spesso dovuta trasformare nella speranza che l’evento si potesse fare una volta ancora. È per me già il secondo anno di fila, su due, in cui mi ritrovo a leggere articoli che danno per spacciata la nuova edizione dell’evento, salvo poi scoprire (con non poca gioia) verso la metà di gennaio che l’evento si farà essendo stato salvato da quello che sembrava un baratro senza uscita.
Se da una parte posso comprendere che un evento di tale portata possa essere difficoltoso da organizzare, specialmente nel trovare un accordo tra le tante parti in causa, non posso esimermi dal pensare che un raduno così importante e così sentito dalla nostra comunità dovrebbe godere di maggiore stabilità.
In questo racconto, che è quello del primo Mello da brocchi, ho cercato di esprimere i tanti motivi per cui lo abbiamo amato, non per i blocchi, non per gli sponsor, e tanto meno per la pioggia che ci ha perseguitati, ma per le persone, per la passione che si respira ogni singolo minuto di questo evento, per i legami che si creano ed i ricordi che si portano nel cuore.
È a nome della community di arrampicatori che mi sento di rappresentare, o almeno buona parte di essa, che auspico possa, il Melloblocco, non limitarsi a trascinarsi anemicamente di anno in anno, ma arrivi ad essere una costante affermata e riconosciuta da tutti gli attori locali e non per molti anni a venire. Soprattutto ora che l’arrampicata sta diventando una disciplina diffusa su larga scala c’è più che mai bisogno di elementi stabili e precisi su cui far crescere e vivere quella comunità che amiamo. Vale a dire il mondo dell’arrampicata stesso e le emozioni che può garantire.
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